“Fondi garantiti dallo Stato ottenuti con documenti falsi”, inchiesta della procura di Monza: 14 arresti
Associazione a delinquere “dedita alle frodi ai danni dello Stato”. Sono 19 le misure cautelari eseguite dalle Fiamme gialle del comando provinciale di Como: sette persone sono finite in carcere, sette ai domiciliari e cinque sottoposte all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. I provvedimenti sono stati disposti nell’ambito dell’indagine denominata “Casa di carta” della procura di Monza, La Guardia di finanza ha eseguito anche il sequestro preventivo di beni per 13,8 milioni di euro. Secondo l’accusa: “Acquisivano società che non avevano problemi con il fisco, mettevano a capo dei prestanome, falsificavano i bilanci con la complicità di un commercialista e poi presentavano domanda per un finanziamento con garanzia del Mediocredito centrale, ma, appena ottenuti, i fondi venivano drenati, lasciando la società incapace di ripagare le rate del prestito”. Gli indagati – 7 in carcere, 7 ai domiciliari e 5 sottoposti all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria – rispondono a vario titolo per associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, riciclaggio e autoriciclaggio. Un’indagine simile a quella di Brescia che ha portato ad arresti e perquisizioni.
Secondo quanto riportano le agenzie di stampa tra gli arrestati c’è un promotore finanziario Marco Savio che lavorava per conto di Banca progetto a Brescia. Savio è indagato anche a Brescia e per lui il gip ha disposto gli arresti domiciliari. È fratello del magistrato della Direzione nazionale antimafia Paolo Savio (quest’ultimo è completamente estraneo alle indagini), è destinatario anche di una ordinanza custodia cautelare in carcere emessa
L’indagine – L’indagine della procura di Monza, coordinata dal pm Michele Trianni, è iniziata nel 2023, dopo l’approfondimento di alcune operazioni finanziarie sospette realizzate dagli amministratori di una società monzese. Le indagini hanno rivelato – spiega una nota della Guardia di finanza di Como – come “la società fosse effettivamente alla mercé di un vero e proprio sodalizio criminale dedito alla commissione di reati fallimentari, frodi fiscali e truffe”. Il gruppo aveva la propria base operativa in un capannone di Cinisello Balsamo, nel Milanese, preso in affitto da un’azienda neo costituita del settore della telefonia, intestata a un prestanome. I servizi di osservazione al capannone hanno permesso di identificare diversi soggetti e di ricostruire le loro reti di relazioni e affari, individuando alcune società su cui si concentravano le indagini dei finanzieri. Le analisi mirate sui bilanci societari e sui conti correnti e le intercettazioni telefoniche e nei luoghi dove si svolgevano gli incontri di affari hanno poi consentito di ricostruire il modus operandi ideato per ottenere dagli istituti di credito finanziamenti garantiti dallo Stato attraverso il fondo di garanzia gestito dal Mediocredito Centrale.
Lo schema – In sostanza, lo schema di frode prevedeva innanzitutto l’individuazione delle società attraverso cui chiedere il finanziamento, in particolare quelle costituite da qualche anno che non avevano subito controlli da parte del fisco. Si trattava nella maggior parte dei casi di aziende attive nei settori del commercio all’ingrosso di polimeri, carta, cartone e delle apparecchiature informatiche con sedi fittizie a Milano, Brescia, Bologna e Venezia. Il gruppo acquisiva poi tramite prestanome di fiducia quote di maggioranza delle aziende e ne falsificava i bilanci con la complicità di commercialista, facendo figurare aumenti di capitale del tutto inventati, in modo che l’azienda potesse apparire solida e in grado di restituire il finanziamento che sarebbe stato chiesto alle banche.
Il meccanismo – Solo allora la società era pronta per presentare la domanda di finanziamento garantito, nella misura dell’80%, all’istituto di credito prescelto. Fondamentale in questa fase la complicità di un’agenzia finanziaria di Brescia, che si occupava di istruire la pratica in modo da agevolare la successiva istruttoria della banca incassando, per questa intermediazione illecita, una percentuale sugli importi erogati. La banca poteva anche decidere di inviare dei propri funzionari nella sede aziendale per sopralluoghi e ispezioni. Il gruppo aveva previsto anche questa eventualità, organizzando quello che gli stessi indagati definivano il ‘cinemà: il cancello del capannone affittato veniva tinteggiato apposta e affissa una targa con il nome della società, all’interno venivano sistemati dei macchinari e arruolati dei falsi operai, presentati come dipendenti dell’azienda. Dopodiché la banca poteva presentare la pratica di finanziamento a Mcc, che deliberava l’ammissione alla garanzia pubblica.
Dopo l’accredito della somma sui conti correnti della società, una minima parte veniva utilizzata per pagare i costi ‘fissi’, il resto invece veniva utilizzata per acquistare auto di grossa cilindrata o drenata in vari modi: prelievi diretti, bonifici a conti correnti intestati ai membri del gruppo, a loro prestanome e a società italiane o estere, tramite il pagamento di false fatture. Svuotando i conti correnti sociali, capitava che non ci fosse liquidità sufficiente per pagare alla banca neppure le prime rate del prestito. Così, per prendere tempo e ottenere una moratoria sui pagamenti, il capo del gruppo istruiva i suoi prestanome in vista del colloquio con i funzionari bancari, simulando situazioni di difficoltà. In un caso, ad esempio, la strategia era raccontare all’impiegato di banca che i mancati pagamenti delle rate del prestito dipendevano da inadempienze dei fornitori, dovute ai disagi creati dall’alluvione in Emilia del 2023.
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