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El Alamein, una storia di sacrificio e amore per la Patria nel racconto dei ragazzi caduti

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La Storia la si può studiare, ma la si può anche raccontare con brani che, comunque calati nell’atmosfera di anni lontani, sono dettati dalla fantasia. Si può dunque immaginare di far parlare i protagonisti di pagine che hanno particolarmente colpito, per sentir raccontare direttamente da loro emozioni e vissuto. Questo tipo di rievocazione, che comprende elementi di narrativa inseriti nella cronaca e, appunto, nella storia, è molto probabilmente più coinvolgente, soprattutto per i più giovani, di un saggio storico, cui è forse più difficile accostarsi. In questi giorni ricorre l’ottantaduesimo anniversario della battaglia di El Alamein, una pagina della storia d’Italia tra le più significative e gloriose. Proviamo, allora, a immaginare come potrebbe raccontarla uno dei giovani che, tra le sabbie del deserto del Sahara, ha dimostrato sacrificandosi cosa significa davvero amare il Tricolore.

“Sono un soldato della Divisione Pavia, morto il 23 ottobre 1942 ad El Alamein. I campi minati inglesi non perdonano: mentre con gli altri ragazzi del mio gruppo stavamo avanzando, all’improvviso è saltato tutto per aria. Al rumore delle esplosioni ormai eravamo abituati, ma l’immensità della grande luce che ci ha inghiottito ci ha sorpreso. Poi più nulla. E la sabbia del Sahara ha nascosto quel che restava di me. Sono rimasto lì sepolto per tanti anni, finché mani pietose e amorevoli hanno raccolto le mie spoglie mortali per dar loro degna sepoltura insieme a quelle di migliaia di altri soldati italiani nel Sacrario di El Alamein. Nonostante gli sforzi compiuti non è stato possibile darmi un nome. Sulla mia lapide è scritto Ignoto”. Abbiamo conosciuto uno dei tantissimi i cui resti sono “Ignoti agli uomini ma non a Dio”, come si legge in un’iscrizione incisa su una delle pareti della Torre sacrario voluta da Paolo Caccia Dominioni sui luoghi della battaglia. Sentiamolo ancora.

“La cosa davvero importante non è come ci chiamavamo, ma quel che abbiamo fatto, e soprattutto perché: tra mille difficoltà climatiche e tecniche, unite all’alternarsi di sentimenti umani di paura e nostalgia con un po’ di sana e coraggiosa baldanza giovanile (molti di noi avevano circa vent’anni o giù di lì), abbiamo messo davanti a tutto – anche alle nostre vite – l’amore per la Patria. Quella Patria che ora possiamo guardare da lontano attraverso i finestroni che, nell’edificio che ospita il nostro riposo, si aprono verso il Mediterraneo. In lontananza, al di là dell’acqua, c’è la nostra Italia, che abbiamo amato sopra ogni cosa con una genuina istintività che ci portava naturalmente verso il giusto. Non ci chiedevamo perché, non discutevamo sull’utilità dei nostri sforzi, non pensavamo all’enormità del sacrificio che veniva richiesto a noi umili soldati. Eravamo certi che quel senso di serena pace che, anche nel mezzo della battaglia più infuocata e violenta, ci ardeva nel cuore – la consapevolezza che stavamo facendo il nostro dovere – era l’unica cosa davvero importante”.

Il giovane Ignoto ci presenta poi una delle figure più eroiche e significative di quei giorni di sabbia, coraggio e sangue: Sergio Bresciani, decorato appena sedicenne con la Medaglia d’Oro al Valore militare. A lui è dedicato anche il sentiero che dalla Torre del Sacrario di El Alamein porta all’edificio di Quota 33, situato su una collinetta rialzata, che ospitava la base del gruppo incaricato della ricerca delle salme degli italiani nel deserto e, in seguito, della costruzione del Sacrario. Dice il soldato Ignoto, riferendosi alle motivazioni che hanno spinto chi combatteva ed in particolare Bresciani: “In alcuni di noi questo amore infinito è stato talmente impetuoso da renderci spontaneamente e naturalmente Esempio per tutti gli altri. Come nel caso di Sergio, un ragazzino di Salò che ad appena 15 anni ha scelto di rinunciare all’adolescenza spensierata in cui era appena entrato per diventare un soldato d’Italia. Sergio è un simbolo, decorato al valore, di tutti noi. L’Eroe fanciullo lo hanno chiamato. Ma per me oltre a questo resterà sempre il camerata che, una notte in cui la paura e la nostalgia di casa erano talmente forti da farmi dubitare di me stesso, mi ha guardato negli occhi e mi ha stretto una spalla. Senza dire una parola, mi ha ridato forza e fiducia. Da quel momento in poi a volte, anche tra le bombe, capitava che ci scambiassimo un’occhiata complice. E ci capivamo senza parlare, con quella forza e intensità che solo il combattere fianco a fianco sa dare”.

Quei due ragazzi, oggi anime che vegliano su quanti, insieme a loro, sono rimasti per sempre giovani, possiamo immaginarli che passeggiano insieme sulla Via Eroica, il viale che dall’ingresso porta alla Torre del Sacrario militare italiano. Un viale che, se lo si percorre in silenzio, si riesce a sentire le voci di quei ragazzi, che si sono sacrificati per l’Italia senza chiedere altro che essere ricordati con l’ammirazione e il rispetto dovuti a chi ha saputo, nonostante tutto, rispondere alla chiamata della Patria. Senza chiedere nulla in cambio se non il ricordo. Il nostro Ignoto e Sergio li immaginiamo sfiorare con lo sguardo i cippi delle Divisioni che hanno combattuto ad El Alamein: tra essi quello della Pavia, alla quale entrambi appartenevano. Di fronte a quel monumento ricordano le loro esperienze e sorridono. Sembra quasi di vederli. Poi succede qualcosa, che li lega al presente: “Eravamo proprio lì quando abbiamo visto arrivare un gruppo di ragazzi inquadrati, composti, commossi. Hanno varcato la soglia di ingresso del Sacrario in silenzio, camminando lentamente sulla Via Eroica, ognuno con il cuore acceso da una scintilla che li spingeva in avanti verso la nostra Torre bianca. Io e Sergio ci siamo di nuovo guardati e li abbiamo accompagnati. Alcuni avevano gli occhi pieni di lacrime, altri si chiedevano se erano degni di essere lì di fronte a noi. Li abbiamo visti salire gli ultimi gradini, chinare la testa ed entrare nel luogo in cui riposano i Ragazzi di El Alamein. Poi si sono schierati ordinatamente e hanno risposto per noi all’appello: un grido con il quale i vivi prestano la loro voce a chi non c’è più. Ascoltando l’eco di quelle voci diventate una, che ancora riecheggia nel Sacrario (e resterà lì per sempre), ci siamo commossi anche noi. E abbiamo avuto la certezza che l’amore di Patria, a cui noi abbiamo donato la nostra giovinezza, non sarebbe morto. Ognuno di quei ragazzi – io e Sergio ne eravamo certi – avrebbe fatto in modo di tenere accesa la fiamma che anche noi abbiamo alimentato. Mentre si avviavano verso l’uscita, li abbiamo guardati negli occhi uno per uno e, ringraziandoli, abbiamo promesso loro che saremmo stati quello che Sergio era stato per me: in ogni momento della loro vita li avremmo seguiti da lontano e, se ne avessero avuto bisogno, avremmo appoggiato una mano sulla loro spalla per spingerli, confortarli e dar loro, se necessario, il coraggio di andare avanti. Come noi, insieme a noi”.

Via Eroica si chiama quel vialone di terra e sabbia, percorrendo il quale, all’avvicinarsi della Torre del Sacrario, ci si sente sempre più piccoli. Una scalinata di marmo, l’ingresso e poi un’ampia sala, sulla quale si aprono due corridoi laterali e diverse stanze, con i muri ricoperti di lapidi. Ognuna a ricordare un caduto, noto o ignoto. Ognuna a ricordare che c’è stato chi, nonostante tutto, ha saputo e voluto rispondere coraggiosamente alla chiamata della Patria.

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