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L’intervista. Il giurista: sui Paesi sicuri Italia vittima del “cortocircuito tra normative Ue e Corte di Giustizia”

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In un’Europa dove le regole cambiano più velocemente delle rotte migratorie, le normative europee parlano una lingua, ma la Corte di Giustizia sembra usarne un’altra. E nel mezzo c’è l’Italia, alle prese con il decreto sui “paesi sicuri” che promette di accendere nuovi conflitti giuridici. In questo contesto, è il professor Antonino Alì, esperto di diritto europeo e docente all’Università di Trento, a dare delucidazioni. In un’intervista, Alì ci svela le contraddizioni di una normativa che sembra fatta apposta per complicare le cose.

Professore, il decreto approvato ieri è in linea con le normative dell’Unione Europea? C’è il rischio che possano sorgere conflitti o che qualche sentenza della Corte europea possa bloccare le decisioni del governo?

In linea teorica sì, il decreto potrebbe risultare conforme alle normative europee, ma la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE, sin dal 1984, stabilisce che gli atti interni contrastanti con il diritto dell’Unione Europea devono essere disapplicati. Questo significa che potrebbero ancora emergere problemi. La Corte ha recentemente ribadito che, in materia di “paese terzo sicuro”, non sono ammesse eccezioni a livello territoriale o per categorie di persone. Tuttavia, i regolamenti dell’Unione Europea del maggio 2024 sembrano indicare il contrario, consentendo eccezioni per determinate aree territoriali o gruppi specifici.

Un esempio concreto riguarda il Bangladesh, che figura nella lista del Ministero degli Esteri come “paese sicuro” ma con note sulle discriminazioni contro la comunità LGBT in alcune aree. Questo approccio di eccezioni, supportato dalla normativa nazionale, contrasta con la posizione della Corte di Giustizia. Quindi, il cortocircuito giuridico è evidente: da un lato, la Corte di Giustizia impone uniformità, dall’altro, le normative Ue di recente introduzione aprono a un’interpretazione più flessibile. La questione si complica ulteriormente con la variabilità delle designazioni tra i vari Stati membri, dato che ognuno ha il potere di definire i “paesi sicuri” in modo indipendente. Questo disallineamento politico e giuridico persisterà almeno fino al 2026, quando entrerà in piena applicazione il Regolamento 1348, che prevede anche la possibilità per gli Stati membri di beneficiare del Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (AMIF) per sostenere le loro capacità operative, specialmente in situazioni di pressione alle frontiere esterne. Armonizzando così le politiche di asilo e creare un sistema europeo comune che garantisca un trattamento uniforme dei richiedenti asilo in tutti gli Stati membri.

L’Italia ha reso primaria l’indicazione dei Paesi sicuri per il rimpatrio con questo decreto. In che modo supera le obiezioni sollevate dai giudici italiani? Siamo di fronte ad un problema giuridico oppure si tratta di una questione politica?

La designazione di un “paese di origine sicuro” richiede l’osservanza di criteri stabiliti dall’Unione Europea, che includono l’assenza di persecuzioni, torture o trattamenti inumani. Tuttavia, per applicare concretamente questi criteri, è necessario basarsi su rapporti di organizzazioni internazionali e fonti nazionali. La discrezionalità degli Stati membri nel valutare i “paesi sicuri” è quindi ridotta, ma ancora presente. Il problema emerge dalla variabilità delle liste tra i vari Stati UE: ciò che per un Paese è sicuro, potrebbe non esserlo per un altro, mostrando come la dimensione politica influenzi ancora queste valutazioni.

La Corte di Giustizia, nelle sue sentenze, ha adottato un approccio , affermando che o un paese è sicuro o non lo è, senza possibilità di considerare eccezioni parziali o limitate. Ad esempio, nel caso riguardante la Moldavia, la Corte ha riconosciuto problematiche specifiche per una parte del territorio, ma ha confermato la sicurezza del resto del paese. Questo approccio evidenzia come l’interpretazione europea tenda ad essere molto restrittiva. Questo disallineamento giuridico e politico potrebbe essere superato nel 2026 con l’implementazione delle nuove normative. Ma attualmente persiste, facendo emergere divergenze tra le sentenze della Corte e le decisioni degli Stati membri.

Il procuratore Stefano Musolino afferma che la normativa europea prevale su quella italiana, aggiungendo che il suo compito è fare «moral suasion» tra i cittadini. È compito della magistratura influenzare l’opinione pubblica in questo modo?

La questione è delicata. Il Presidente della Repubblica ha infatti sottolineato la necessità di mantenere un equilibrio tra i poteri. Il ruolo della magistratura dovrebbe limitarsi all’applicazione della legge, evitando interpretazioni o azioni che possano apparire come influenze sull’opinione pubblica.

Il Presidente del Senato La Russa ha detto che va chiarita la «zona grigia» tra giustizia e politica. Secondo lei, la normativa italiana è chiara a sufficienza o è necessaria una revisione costituzionale, come suggerisce il Presidente del Senato?

La normativa europea sulla gestione delle migrazioni entrerà pienamente in vigore nei prossimi anni, e probabilmente questo aiuterà a ridurre i conflitti giuridici attuali. Tuttavia, le tensioni tra politica e giustizia, in particolare sul tema dell’immigrazione, riflettono un dibattito più ampio sul ruolo della magistratura rispetto alla politica. La Costituzione italiana fornisce già indicazioni su come gestire questo equilibrio, ma il problema risiede nell’applicazione concreta e nelle interpretazioni divergenti.

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