1954- 2024: l’italianità per una Trieste più europea
Tornammo italiani, in una Piazza Unità sferzata di pioggia e bora che alla folla festante parvero radiose. Settant’anni dopo, è l’ora di diventare più europei: ne abbiamo i mezzi, il lignaggio, lo spirito, il potenziale. Ne abbiamo i tasselli ma non ancora il mosaico, frammentato da buchi neri e tessere sparse, molte prive d’incastro; come si addice a una città eterna incompiuta che dall’incompiutezza trae la propria identità. La patina del tempo sottrae colore, ma è un deposito onesto. Qual è oggi il senso dell’italianità conquistata il 26 ottobre 1954, della soverchiante acclamazione collettiva che accolse l’ottavo reggimento bersaglieri a precedere tutte le altre forze militari e civili, tutte gioiosamente sopraffatte in piazza e lungo le rive?
La prima e fondamentale considerazione suona banale oggi, ma è quasi sbalorditiva alla luce dei decenni di tensioni nazionali e internazionali che seguirono a quella giornata, e cominciarono a sciogliersi solo nel giugno 1991 con l’indipendenza di Slovenia e Croazia (e il cammino europeo che ne derivò): ancorché il ritorno della città all’Italia fosse dichiaratamente provvisorio, oggi possiamo dire che da allora non è mai più stato in discussione.
La cortina di ferro rimase, ipocritamente mascherata dalla retorica dei “confini aperti”, che aperti non furono mai. Le rivendicazioni e i conflitti di nazionalità furono pressoché permanenti, alimentati dall’indegno silenzio che avvolse la tragedia delle foibe e dell’esodo, e rinfocolati a ogni buona occasione dai dividendi elettorali che sia la destra che la sinistra ne ricavavano.
Il Trattato di Osimo incubato nella segretezza piombò nel 1977 su una città sbigottita, con una sconcertante insensibilità e inopportunità politica che ne travolse anche i contenuti positivi (e ne aveva, bisogna avere il coraggio di dirlo). Ma a dispetto di una guerra fredda tutta locale che si protrasse per quarant’anni parallelamente a quella mondiale, l’italianità di Trieste fu da quel 26 ottobre 1954 un fatto assodato, e mai più veramente in discussione.
Quello che mancò in quei decenni – i tempi non erano ancora maturi – furono le basilari sfumature, uno sguardo di prospettiva che soltanto oggi, dissoltasi la Jugoslavia e pienamente integrate Italia, Slovenia e Croazia nel contesto europeo, possiamo proiettare.
È per l’appunto questa l’onestà della patina del tempo, a insegnarci che le identità plurime (e quella di una terra di confine lo è per definizione) non sono alternative o conflittuali, bensì si stratificano e si sovrappongono.
Nell’animo risolto di un’appartenenza territoriale non vi sono fratture, ma inclusioni progressive. Per quanto suoni poco comprensibile a chi si nutre di antitesi, siamo triestini e al tempo stesso friulgiuliani, italiani, europei e cittadini del mondo: la nostra patria è il mondo come per i pesci il mare, dice Dante in un passaggio della “De vulgari eloquentia” spesso citato da Claudio Magris. E lo stesso vale per sloveni, croati, austriaci, greci e per tutte le genti che vivono da sempre in queste terre, che sono anche le terre loro non meno che italiane, giacché a essersi spostati sei o sette volte nel secolo scorso furono i paletti delle frontiere e non le comunità (se non quando sradicate a forza, come nell’esodo).
Ebbene, queste identità stratificate generano un’unicità territoriale che è la vera ricetta segreta dell’attrazione che Trieste oggi esercita, e che si declina e rispecchia in ogni cantone: nelle persone, nei palazzi, nella cultura, nello spirito del luogo.
Sarà un caso che Trieste abbia generato così vasta e grande letteratura, quale luogo dell’anima ben più che da spazio fisico? Non può sfuggirci che persino oggi (proprio oggi), in vetta alle classifiche dei libri più venduti in Italia, troviamo ben tre opere ambientate o ispirate a Trieste: “Risplendo non brucio” di Ilaria Tuti, “Alma” di Federica Manzon, “Bambino” di Marco Balzano.
Come può questo accadere a una piccola, periferica, marginale città di duecentomila abitanti, in assenza di una qualche fascinosa, inafferrabile ragione identitaria?
Assodato che l’italianità (non conflittuale, non avversativa, non separatrice) è una cifra indiscutibile della città, che ne è oggi a settant’anni di distanza da quella giornata indimenticabile? Crediamo che in forza del suo passato e presente, della sua collocazione geografica e del ruolo maturato, Trieste sia chiamata a un salto di qualità anzitutto culturale: che da italiana, debba diventare più europea. È una transizione in parte compiuta negli ultimi trent’anni. La città è oggi molto più aperta, coesa, fattiva e proiettata internazionalmente. Ma in buona parte il cammino è ancora da compiere, nel rapporto con i Paesi vicini, nell’essere attrattore d’impresa e di cultura, nel darsi un’organizzazione urbana autenticamente europea.
Non amando le genericità, specifichiamo: arricchire l’offerta culturale negli spazi culturali ed espositivi, a cominciare dal Salone degli incanti; favorire un percorso museale anche nella segnaletica e nell’immagine delle vie; svoltare con più decisione nella pedonalizzazione, magari prendendo esempio da Lubiana che ha liberato completamente il centro dalle auto riempiendolo di mini-bus elettrici; affrontare con tutta l’urgenza del caso la carenza di parcheggi; investire ancor più nell’arredo urbano e nella ciclabilità; garantire ai migranti in transito (e ai triestini che vorrebbero vivere le piazze) un’accoglienza decorosa e umana; lavorare per attrarre grandi imprese internazionali negli spazi dismessi (come Palazzo Carciotti) e nei punti franchi.
È un libro dei sogni? Possibile. Ma i turisti che ogni settimana di più ci scelgono rispetto ad altre destinazioni, persino suscitando crescenti mugugni, ci dicono implicitamente che abbiamo un grande potenziale inespresso, e forse che il giocattolo potrebbe sfuggirci di mano. E se oggi siamo giustamente orgogliosi di quanto accadde settant’anni fa, facciamo in modo di coltivare lo stesso orgoglio per il futuro centenario. —
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