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Октябрь
2024

L’angoscia del ristoratore di Pavia: «Mia madre in Libano sotto le bombe: la vorrei qui, ma anche per muoversi si rischia la vita»

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PAVIA. Sua madre di 64 anni è ancora in Libano, sotto le bombe di Israele che solo domenica sera ha attaccato almeno 50 città e villaggi. «È bloccata lì insieme alle mie sorelle e i nipoti: mia mamma ha i documenti per venire in Italia ma ho paura a farla trasferire, perché l’esercito israeliano non fa differenza tra civili e combattenti. Il solo viaggio verso l’aeroporto mi spaventa: quello che sta accadendo è uno scandalo sotto gli occhi di tutti, mentre il mondo resta a guardare». Bassam Nazha è il titolare del Byblos cafè, il noto ristorante libanese di via Volturno aperto nel 2007 e famoso per la sua cucina mediorientale dai prezzi accessibili con piatti di buona qualità; locale che prende il nome della città-patrimonio Unesco che si trova a nord di Beirut.

Da dietro il bancone, Nazha non nasconde la preoccupazione e una certa rabbia per ciò che sta succedendo in Libano: il Sud del Paese è stato invaso a inizio mese dalle truppe dell’Idf (forze di difesa israeliane) e secondo diversi analisti si tratta dell’attacco più sanguinoso dal 2006, quando con un’operazione di terra Israele ha occupato la parte meridionale del Libano.

Diciotto anni dopo, i carri armati di Tel Aviv sono tornati nel Paese e le bombe non cadono solo a Sud: tra le zone colpite c’è anche la valle della Beqa’, nel distretto di Balbeek a ovest del Paese dove vive la famiglia di Nazha.

«Da una casa all’altra»

Dopo neanche un mese di guerra, in Libano si contano già centinaia di migliaia di sfollati, e secondo Unicef più di 400mila bambini hanno dovuto lasciare le proprie case. Dopo aver concluso gli ultimi servizi del pranzo, il risToratore si siede al tavolo e riporta le testimoniante dei suoi affetti. «Tre famiglie che vivevano vicino la mia sono morte, parliamo di 25 persone che non c’entravano niente con il conflitto in corso, è inutile usare la scusa degli obiettivi militari. Mia madre e le mie sorelle sono in fuga, scappano da una casa all’altra nella speranza di trovare un rifugio sicuro. Tutti sono presi di mira, chiunque può essere colpito: l’esercito israeliano non fa differenza tra un autobus carico di persone o una macchina di militari» prosegue Nazha, che è arrivato a Pavia nel 1997 per studiare Economia all’Università, per poi fermarsi nella città che l’ha accolto. Da sempre l’ateneo intrattiene legami internazionali e sono molti gli studenti e le studentesse che, anche oggi, si trasferiscono dal Medio oriente per studiare in città. Un legame che oggi rischia di spezzarsi, alimentando l’angoscia di chi vive in Italia con la mente sempre rivolta ai suoi affetti rimasti nel Paese d’origine.

Per fermare i razzi delle milizie di Hezbollah, l’organizzazione politico-militare che si è schierata a fianco della Striscia di Gaza invasa da Israele dopo il raid di Hamas del 7 ottobre, l’esercito israeliano ha allargato il conflitto regionale valicando il confine con il Libano e colpendo anche le basi Onu della missione di pace Unifil, creata per sorvegliare la blue line: si tratta della linea di demarcazione tra Libano e Israele creata nel 2000 per segnare il ritiro delle truppe Idf dal Paese. Un attacco ripetuto e deliberato ai caschi blu, che ha destato lo sdegno di molti Paesi che partecipano alla missione Onu. «Non ci sono atti di terrorismo peggiori di quelli commessi da Israele – prosegue Nazha – io condanno l’attacco del 7 ottobre, ma tutto quello che è capitato dopo quella data è ancora più grave. Sono morte più di 45 mila persone, la Striscia di Gaza è in ginocchio con migliaia di persone che muoiono di fame e adesso la guerra è arrivata anche nel mio Paese: a Israele sembra non bastare la sofferenza che ha imposto alle persone, così ha chiesto anche il ritiro dei militari dell’Onu. Più che difendersi, sembra che Israele voglia allargare i propri confini, perché dopo la morte dei capi di Hamas continua ad attaccare e a bombardare. Se non è estremismo questo, allora non so come chiamarlo».

«La mia famiglia è lì»

Nel frattempo, gli ultimi clienti lasciano il ristorante e Nazha si dedica alle pulizia del pomeriggio, in vista del turno serale: «Quello che sta capitando al Libano è grave, la mia famiglia è ancora bloccata là. E di mezzo, come in ogni guerra, ci finisce chi non c’entra niente».