Cave di pietra: risorse e ferite nel cuore del Carso
Ė l’assenza a caratterizzare il discorso sulle cave di Trieste. Se l’enclave di Aurisina è ormai avviata verso una valorizzazione della pietra carsica, le cave triestine appaiono come una rimozione: la cava è, ridotta al minimo termine, uno scavo volto a rimuovere materiale. E come tale, esaurita la sua capacità di fornire manodopera e ricchezza, rimane alla sua dismissione: un grande cratere che buttera la terra. La questione che si ripropone, anche nel caso giuliano, è allora se mascherare questa rimozione colmando la cavità, se re-interpretarla (la cava come parco fotovoltaico o come museo di cultura materiale) o se far ripartire gli scavi.
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La grande ferita a Bagnoli
Il caso più evidente compare a Bagnoli della Val Rosandra, quando lo sguardo cade sulla “grande ferita” aperta nel colle dalla cava Brusich, nota tra i locali come la cava del cuore o, per gli amanti della storia, dell’aquila romana. La forma ricalca infatti un cuore stilizzato e tutt’oggi colpisce essendo incastonata in un’area naturalistica quale la valle.
La storia della cava di pietra è legata all’operato dell’ingegnere Aurelio Brussi che, originario di Veglia in Dalmazia, aveva frequentato all’estero la ditta Union Beton nel primo dopoguerra, applicandosi con diligenza a restaurare un po’ tutta Trieste negli anni Venti e Trenta: suoi ad esempio i recuperi del ponte Bianco e Verde, del Porto Vecchio, delle dighe foranee e del porto petroli di San Sabba. La cava Brusich, quand’era in attività, avvisava con sirene simili a quelle degli allarmi antiaerei quando le mine utilizzate per gli scavi stavano per brillare.
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La cicatrice Faccanoni
Rimane anch’essa nell’ambito delle grandi cicatrici della montagna, nonostante nel 2014 si discutesse un suo riempimento e nel 2022 un suo riutilizzo quale parco fotovoltaico, la cava Faccanoni.
Le prime tracce compaiono su Il Piccolo di Trieste dove si scriveva spesso di una cava a Sistiana della ditta Faccanoni Galimberti Piani, utilizzata per ricavare il materiale con il quale imbonire il porto. Frane improvvise, mine che facevano cilecca, baruffe tra gli operai: la cava, a inizio Novecento, era nota per i suoi infortuni da cui, ad esempio con il caso del rogo del 5 maggio 1907, apprendiamo che assumeva “operai montenegrini e croati” che vivevano dentro “baracche costruite nell’interno della cava”.
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L’abisso in fondo alla cava
Con la partenza della prima Trieste-Opicina, poi “Monza in salita”, la cava consegnò uno dei passaggi più iconici alla gara di automobilismo, con la famosa “curva Faccanoni”. Proprio l’anno della prima gara, il 4 giugno 1911, segnò anche il passaggio alla società Sicat che la gestì fino alla dismissione avvenuta negli anni Ottanta. La cava nasconde inoltre, nelle sue profondità, l’abisso Faccanoni esplorato dalla Commissione Grotte E. Boegan della Società Alpina delle Giulia l’8 dicembre 1964.
Composto da due stretti pozzi, l’abisso si colloca cento metri al di sotto di quella “Grotta dei Morti” che, nel XIX secolo, fu protagonista di una delle imprese di scavo alla ricerca dell’elusivo fiume Timavo. A propria volta la grotta Faccanoni fu scoperta durante lavori di avanzamento del fronte della cava.
Deposito e war games
Come avvenuto anche con la cava Brusich, la Faccanoni è stata poi utilizzata nel 2007 quale deposito per i materiali ricavati dagli scavi della Grande Viabilità Triestina. Oggigiorno il Comune di Trieste la concede ai gruppi di war games per ricreare tra le rovine (finti) combattimenti; e sulle loro teste volteggiano diversi rapaci che, nei decenni, hanno nidificato nella parte superiore.
Pietra Scoria e San Giuseppe
Nell’ambito delle cave ancora attive, sopra Sant’Antonio in Bosco, la cava Pietra Scoria continua a offrire pietrisco e pietrischetti per le opere edilizie: nata quale cava a cielo aperto negli anni della prima guerra mondiale, fu poi riaperta dai fratelli Scoria nel 1962 e tutt’oggi riceve e fornisce materiale di scavo.
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Si colloca vicino, sul ciglione roccioso dell’altopiano carsico, la cava di San Giuseppe: oggigiorno abbandonata, si divideva in una sezione superiore e una inferiore, deputate all’estrazione di calcare. La sezione superiore presenta ancora una vecchia pala cingolata, mentre negli ambienti interni una galleria presenta una ferrovia Decauville e una caverna la stazione motrice per la teleferica.
La cava forniva infatti il calcare necessario all’impasto per la produzione del cemento dell’Italcementi, fabbrica inaugurata nel 1954 dal Governo Militare Alleato. Oltre cento carrelli trasportavano ogni giorno, dalla cava di San Giuseppe, una tonnellata di calcare poi lavorato nei forni dello stabilimento, demolito nel 2023.
Il caso di Muggia
Si colloca invece in un ambito diverso il caso delle cave di arenaria di Muggia, inserite in un contesto storico meno alieno alla storia del circondario qual era invece stato il caso della Faccanoni. «Trieste xe stada fata in piera de Muja» si ripeteva un tempo e l’arenaria muggesana ha senza dubbio costituito l’ossatura della città, specie per i masegni delle strade e piazze principali.
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La zona a sud di Muggia presenta infatti una formazione detta “Flysch” composta da un misto di marne e arenarie, dalle quali si poteva estrarre o arenaria grigio azzurra, dal colore uniforme e di notevole resistenza; altrimenti era possibile ricavarne un’arenaria rossiccia molto sensibile alle variazioni di caldo e freddo; bella, ma fragile. Trieste durante tutto l’Ottocento si impegnò di volta in volta a rifare la pavimentazione col selciato di arenaria muggesana, lamentando laddove fosse assente il facile cedimento del terreno.
L’esperienza dei castellieri
Muggia d’altronde aveva avuto un’esperienza risalente ai castellieri, con le prime estrazioni “in superficie”; passando poi all’epoca romana, con la presenza di strutture apposite nella baia di San Bartolomeo; giungendo agli statuti comunali medievali del 1333 e 1420 e infine alla riapertura delle cave nell’Ottocento, superando l’ostacolo delle barriere doganali della Repubblica di Venezia. Oggigiorno la cava Renice di Monte Castellier, presso Elleri, rimane ancora attiva, sebbene il masegno estratto venga utilizzato a scopo decorativo.
La parola, a Trieste divenuta sinonimo di pavimentazione, indica in realtà l’arenaria quale blocco da costruzione ed era un termine preso in prestito, secondo il professor Paronuzzi, dal dialetto veneto. Corrisponderebbe, in italiano, a “macigno” o pietra da macina. Al di fuori delle cave in sé, il porto di Muggia presentava ancora, a inizio novecento, il “molo dele piere”, appositamente utilizzato per scaricare i blocchi lavorati di arenaria, poi imbarcati verso Trieste. —
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