Il senso di Churchill per i dittatori
Ce lo aveva annunciato del resto lui stesso: «La storia sarà gentile con me: poiché intendo scriverla io». E in effetti bisogna riconoscere che Winston Churchill ha compiuto il suo più grande capolavoro nell’alterare la realtà dei fatti, divenendo egli stesso fonte ingannevole di una narrazione avvelenata, con la sua monumentale storia della Seconda guerra mondiale che gli valse il Nobel per la letteratura. La versione dei fatti scritta dai vincitori ci ha tramandato una certa immagine dello statista britannico. L’uomo che promette alla sua nazione sudore, lacrime e sangue per fermare Hitler e che pronuncia, nel 1940, parole rimaste scolpite nella memoria collettiva: «Combatteremo sulle spiagge, combatteremo nei luoghi di sbarco, combatteremo sui campi e sulle strade, combatteremo sulle colline; noi non ci arrenderemo mai».
Però esiste anche un secondo Churchill. Quello che, negli anni precedenti, non nascondeva la sua ammirazione per Benito Mussolini, sviolinava Adolf Hitler e, nella guerra civile spagnola, benché formalmente neutrale, simpatizzava in realtà per i falangisti di Francisco Franco. È severamente vietato guardare dentro questa storia, nessuno la ricorda né se ne parla. Eppure non è meno vera delle parole sulla resistenza a oltranza contro il «mostro» nazista e fascista. Alcune delle più sconcertanti dichiarazioni di Churchill risalgono al 17 febbraio 1933, quando tenne un discorso sul «pericolo rosso», a Londra, alla Queen’s Hall, in occasione delle pompose celebrazioni del venticinquennale dell’Unione anticomunista e antisocialista. L’uomo col sigaro definì Mussolini come «il più grande legislatore vivente», aggiungendo che egli aveva «stabilito un centro di riferimento nel mondo, nella storia del mondo, attraverso cui le comunità disperate alle prese con il bolscevismo non esiteranno a lasciarsi guidare». Poi partì con una filippica contro i debosciati rampolli delle élite britanniche, gli universitari di Oxford, i quali avevano da pochi giorni pronunciato un solenne giuramento che suonava come una vera e propria forma disonorevole di diserzione preventiva di fronte al dovere di combattere in armi per la difesa della Patria aggredita. L’Unione di Oxford, il consesso dove si svolgevano i celebri duelli oratori tra gli studenti, aveva approvato, con 275 voti contro 153, una mozione che affermava: «Questa istituzione rifiuta in qualunque circostanza di combattere per il re e per la nazione». Churchill definì «abietto» tale giuramento, aggiungendo: «Ci è stato detto di non prendere molto sul serio questo fatto. Il quotidiano The Times ha scritto un articolo, L’ora dei bambini, ma io disapprovo, e penso che noi dovremmo prendere la cosa molto sul serio. Io credo che sia il sintomo di qualcosa di inquietante e insieme di disgustoso».
Si lanciò quindi in un’apologia dello spirito regnante in Germania, dove Hitler era da poco asceso al potere, e in Italia, governata dal «genio romano» del suo novello Cesare. «La mia mente si rivolge alle ristrette acque del Canale e del Mare del Nord, dove grandi nazioni sono fermamente determinate a difendere i loro interessi, la loro gloria nazionale e la loro esistenza, insieme con le loro stesse vite». Ecco le parole incredibili e sconvolgenti che uscirono dalla sua bocca: «Penso alla Germania, con i suoi splendidi giovani, dagli occhi azzurri, che marciano uniti per tutte le strade del Reich, cantando i loro antichi inni, domandando di essere arruolati in un esercito, cercando con impazienza le armi della guerra e bruciando dal desiderio di patire e di morire per la loro Patria». L’ardore della gioventù hitleriana, purtroppo, non era degno di essere additato per esempio, in quanto, nel volgere di pochissimi anni, la storia si sarebbe incaricata di dimostrare che molti di quei «guerrieri ariani» sarebbero stati autori di una delle più abominevoli combinazioni di crudeltà personale e di efferatezza ideologica che la storia abbia registrato, sotto il folle disegno della supremazia razziale.
Poi aggiunse: «Penso all’Italia con i suoi ardenti fascisti, schierati con il loro grande Capo, e colmi di senso della fierezza patriottica e del senso del dovere nazionale». Sono molti, e mai, o quasi mai, ricordati, i discorsi e le prese di posizione in cui Churchill tessé le lodi dei due alleati di Berlino e Roma, Hitler e Mussolini, almeno fino al 1938-39. Il 17 settembre 1937, riprendendo un sentire comune tra la popolazione britannica, che corrispondeva anche ai suoi convincimenti, definì la Germania una grande nazione «legata a noi da tanti vincoli di storia e di razza». Poi, negando di essere «ostile al governo tedesco», vaticinò, appellandosi al Führer come allo statista «della pace»: «Quando un uomo è impegnato in una lotta disperata, è costretto talvolta a digrignare i denti mentre i suoi occhi lampeggiano d’ira. Ira e odio rendono ancora più efficaci le armi per la lotta. Ma il successo dovrebbe invece rendere lieto e sereno lo spirito per custodire e consolidare, con uno stato d’animo adatto alle nuove circostanze, con tolleranza e comprensione tutto ciò che nella lotta si è riusciti a ottenere». Parole gettate nel vuoto, che però avevano il potere di influenzare l’opinione pubblica, per la statura della personalità che tali espressioni pronunciava, rafforzando quel clima di appeasement, cioè di pacificazione con i dittatori, che era in pieno svolgimento nella Gran Bretagna d’allora.
Un plateale e colossale endorsement filofascista fu quello messo a segno da Churchill, dieci anni prima, davanti alla stampa italiana, al termine dei suoi colloqui romani con il Duce: era il gennaio del 1927. Al tempo, l’uomo politico d’Oltremanica era cancelliere dello Scacchiere. «Non ho potuto non rimanere affascinato» esordì «come tante altre persone, dal cortese e semplice portamento dell’onorevole Mussolini e dal suo contegno calmo e sereno, malgrado tanti pesi e tanti pericoli. Secondariamente, è stato facile accorgersi che l’unico suo pensiero è il benessere durevole del popolo italiano, così come egli lo intuisce, e che qualunque altro interesse di minor portata non ha per lui la minima importanza». Così proseguì, negli incensamenti: «Sul piano della vostra politica interna, ho sentito molte cose intorno alla vostra legge sulle corporazioni, che, mi si dice, associa direttamente venti milioni di operosi cittadini allo Stato, e obbliga lo Stato ad assumere a loro riguardo e verso i loro dipendenti delle responsabilità molto dirette. Questo movimento è del massimo interesse e il risultato di esso sarà attentamente seguito in ogni Paese». Ancora: «Certamente, esso richiede la maggior buona volontà e cooperazione da parte di tutto il popolo; come anche una guida chiara e sapiente da parte dello Stato. Ma, ad ogni modo, di fronte a un tale sistema accettato con ardore, è perfettamente assurdo dichiarare che il governo italiano non poggi su una base popolare, e che non sia sorretto dal consenso attivo e pratico delle grandi masse». E concluse: «Se fossi stato italiano sono sicuro che sarei stato interamente con voi dal principio alla fine della vostra lotta vittoriosa contro i bestiali appetiti e le passioni del leninismo».
Anche come editore di giornale, Mussolini aveva più di una ragione di ricevere questo panegirico dall’ospite straniero. Churchill era stato gratificato da una collaborazione d’oro con Il Popolo d’Italia, il quotidiano fascista, che pubblicò, in numerosi articoli, usciti con grande evidenza in prima pagina, le sue memorie sulla Prima guerra mondiale.