Impediva alla moglie di andare a lavorare e la costringeva a fare sesso con lui: 43enne a processo
Le era preclusa l’autonomia nel portare avanti le proprie scelte come donna, moglie e madre. Tutto era improntato all’«obbedienza incondizionata». E a ribellarsi ne subiva le conseguenze.
La giovane donna, trentacinquenne di origini bengalesi, è tuttora ospite in una struttura protetta, insieme alla figlia, minorenne. Per lei e la sua bambina, infatti, si è alzato lo scudo del “Codice rosso”, attraverso l’applicazione della legge 69 del 2019, che, a riforma e modifica della disciplina penale e processuale della violenza domestica e di genere, ha introdotto nuovi reati, inasprendo le sanzioni e “disegnando” una procedura su misura per tutelare meglio e prima chi vive situazioni a rischio. Nel caso specifico, le ipotesi delittuose contestate sono i maltrattamenti domestici e la violenza sessuale. Reati evidentemente gravi, per i quali è in corso il processo a carico del marito, di 43 anni.
Un procedimento che è stato riunito, essendo iniziato dalla contestazione in ordine alla sola contestazione dei maltrattamenti. A sostenere la difesa è l’avvocato Sascha Kristancic, la parte lesa quale parte civile è rappresentata dall’avvocato Nicoletta Luzzatto Guerrini.
Quanto è stato ricostruito dalla Procura consegna un vissuto familiare decisamente pesante, senza diritto di “voce” per la donna che non rientrasse nella sola obbedienza rispetto alla quale doversi conformare. Una sorta di “conditio sine qua non”, intesa come condizione imprescindibile al mantenimento dei rapporti e dei comportamenti dovuti.
La pubblica accusa è chiara e netta, infatti, nel fare riferimento all’«imposizione di un regime di vita insostenibile». Così come è chiara nell’esplicitare il contesto di fondo quando sostiene che il coniuge «approfittando della condizione di rispettabilità propria e del proprio padre all’interno della comunità bengalese della città di Monfalcone e nella cittadina bengalese di origine, maltrattava la moglie convivente impedendole di lavorare, se non per un breve periodo, imponendole l’obbedienza incondizionata, offendendola e denigrandola con frequenza quotidiana, anche in presenza della figlia minore».
I fatti contestati considerano il periodo dal 2017 fino all’ottobre del 2020. Anno, il 2020, contrassegnato anche dalla contestata violenza sessuale alla quale la giovane donna sarebbe stata sottoposta. In questo senso, l’imposizione era quella di «avere un’altra gravidanza, inducendola ad avere rapporti sessuali non voluti dalla donna», argomenta sempre la pubblica accusa. E un rifiuto, ovvero «in caso di disobbedienza», avrebbe comportato la prospettiva di «sottrarle la figlia», se non anche di «non concederle l’autorizzazione a recarsi il giorno dopo al lavoro».
La gravidanza imposta, dunque, che lei non voleva, e pure costretta ad avere rapporti sessuali. La giovane donna era così ricorsa alla contraccezione, salvo venire «aggredita» dal coniuge nel momento in cui l’aveva scoperto. La Procura delinea la portata di quella “gravidanza non voluta” laddove rileva che il ricorso alla pillola anticoncezionale rappresentava «un gesto con il quale la donna aveva dimostrato di rifiutare la sottomissione impostale, ribellandosi all’obbedienza». E «tale regime di vita l’aveva costretta ad abbandonare la casa coniugale, trovando ospitalità, insieme alla minore, in una struttura protetta». Ieri, in aula, al Tribunale di Gorizia, davanti ai giudici in composizione collegiale, sono stati chiamati a deporre tre testi, due amiche della giovane e l’assistente sociale.—
© RIPRODUZIONE RISERVATA