Amore a Mumbai (All we imagine as light), che meraviglia questo film. Premiato a Cannes con Grand Prix ma nostra Palma del cuore
Avete presente quei film che possiedono innata e spontanea grazia? Che da dovunque li prendi e li vedi, anche solo singole sequenze o singole inquadrature, senza sapere nulla del resto, ti fermi, rimani rapito e dici “che meraviglia”? Ecco, Amore a Mumbai (meglio il titolo originale All we imagine as light) è uno di quei film lì. Sarebbe bello entrare in un cinema e scoprirlo minuto dopo minuto senza sapere nulla, sorpresi da quella magia che le storie apparentemente e geograficamente lontane possono ancora trasmetterti. Ebbene l’opera prima della regista indiana Payal Kapadia è ambientata nella prima parte a Mumbai e nella seconda in un villaggio sulla costa del distretto di Ratnagiri.
Due infermiere di un grande ospedale della metropoli indiana condividono un piccolo appartamento. Prabha (Kani Kusruti) è una quarantenne apparentemente disillusa dalla vita con un marito migrato in Germania da tempo e che non sente più; mentre Anu (Divya Brabha) ha trent’anni è solare, giocosa e amoreggia con un bel giovanotto evitando di seguire una famiglia che vorrebbe imporgli un marito. A loro si aggiunge Parvaty (Chhaya Kadam) un’inserviente più anziana dell’ospedale che non riuscendo più a dimostrare di abitare in una casa posseduta dal marito defunto viene sfrattata dai costruttori di un megacomplesso vip.
Kapadia immerge le sue donne, il sottile filo che naturalmente sembra legarle, il rispetto per un’emancipazione mai esibita ma tenace, nel brulicare della metropoli occidentale di Mumbai. Lo sguardo sul caos cittadino nel periodo monsonico è moderno e poetico, per nulla accigliato o severo, comunque straordinariamente coinvolgente. Tra primi piani delle protagoniste, mezzi busti per la vita d’ospedale e quella tra la folla di un bus, carrellate laterali sull’insieme sempre illuminato e vitale di banchetti e negozi, Kapadia costruisce dense e sinuose pennellate visive per un racconto di sentimenti sfuggenti e timidamente inseguiti, di generoso sostegno amicale oltre le differenze di età.
Poi all’improvviso, Prabha e Anu accompagnano Parvaty nel suo villaggio natio dove tornerà a lavorare e vivere, e lì entrambe troveranno una sorta di epifania dello spirito e dell’essere, lontana dalle inseguite illusioni cittadine. Così il film slitta all’interno di un ambiente più selvaggio e spurio per nulla miserabile, in uno spazio costiero post monsonico quasi disabitato. Da un iniziale minuetto tutto sulle punte e sugli angoli urbani si scivola in un magmatico sciabordio acquatico rossastro roccioso. Dal quadro elegantemente pieno a quello apparentemente vuoto. Un gioco di prestigio cinematografico che è come il numero di un mago: ogni breve digressione narrativa, ogni dettaglio animale, naturale, ambientale (le scritte sulle rocce illuminate da uno smartphone) appaiono mute e dirompenti come da dentro un prezioso scrigno. Non c’è nulla in Amore a Mumbai che zoppichi, deluda, annoi. C’è invece un tutto così complesso e stratificato, amalgama di pochissime parole, sguardi di un’intensità sconvolgente, tonalità fotografiche che esaltano il contrasto tra oscurità e luce, zampilli dapprima di un pianoforte per la metropoli e poi sound eclettico più d’atmosfera (Topshe è l’autore), tanto da urlare dalla gioia di poterlo vedere. Co-produzione indiano-francese che ha vinto il Grand Prix all’ultima Cannes e che diventa da oggi per noi Palma del cuore. Kusruti (volto di molto cinema d’autore) e Brabha (idolo di serie popolari e seguitissime) potrebbero insegnare il mestiere alle colleghe hollywoodiane e soprattutto italiane.
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