Nadal il fenomeno. Uno di noi
Tocca a te servire, Rafa. La tua scarpa destra passa veloce sulla riga, la spolvera. Un paio di colpi secchi con la racchetta sotto le suole. Ora ti aggiusterai gli slip nei pantaloncini e ti toccherai nell’ordine la maglietta nei dintorni delle spalle, il naso, le orecchie, la fronte.
Uno sguardo feroce all’avversario che attende, laggiù, oltre le colonne d’Ercole della rete di un campo da tennis. Una goccia di sudore ti scorre sulla fronte. Vicino alla tua postazione del cambio campo, erette, rigorose come fondamenta di una casa, ci sono le bottigliette d’acqua che hai posizionato maniacalmente, seguendo uno schema antico e misterioso, che tutti vedono che solo tu conosci nel profondo.
Sei pronto.
Hai eseguito il tuo rituale, la routine ancestrale che ti porti dietro da bambino, come tanti pensieri, tante sensibilità. Nel gennaio del 2000 a Tarbes, sul versante francese degli Alti Pirenei, avevi tredici anni quando vincesti il torneo Les Petits As e in un’intervista, subito dopo la premiazione, dicesti semplicemente: che cosa farò ora? Tornerò ad allenarmi. So che questo è un torneo importante, ma vincerlo non significa che diventerò un bravo giocatore. Dunque, continuerò a lavorare, e si vedrà.
Per tutti questi anni hai ascoltato il te stesso bambino; quel bimbo con la maglietta nera, che parlava a Tarbes, tu non l’hai tradito. Hai recepito quell’appello alle uniche tue forze, la scelta della tenacia e dell’umiltà, il rifiuto di accontentarti di un talento pur smisurato, l’invito al lavoro che diventava disciplina, la coltivazione di un’energia interiore e l’impegno perseverante a migliorare, a evolverti. Ora che annunci il tuo ritiro dal tennis puoi dirtelo: hai mantenuto le promesse che ti eri fatto. E se non riuscirai a dirtelo, per quella sorta di modestia suprema che ha accompagnato la tua carriera e il tuo modo di essere, te lo diranno tutti, te lo diremo noi.
Placati, Rafa.
Nessuno di noi si è mai sentito come Federer: in campo era troppo estetico e fuori era troppo stiloso per innescare un’emulazione intima. In compenso in tanti abbiamo provato empatia per te e in un momento della vita abbiamo pensato che potevamo copiarti la determinazione, il rispetto, la capacità di migliorarsi, la forza di uscire dagli agguati della vita.
Tra un mese a Malaga giocherai per l’ultima volta. Per la tua ultima danza hai scelto le finali di Coppa Davis e forse è bello così, perché tu sei il re di Parigi ma la maglia della Spagna è la tua seconda pelle e sarà magnifico, doloroso, emozionante vedere il tuo ultimo grido, la palla che non raggiungerai o che spedirai in rete o fuori, oppure una vittoria, addirittura, per lasciare il campo come dovresti, cioè vincendo. Sai bene che cosa proverai: l’hai visto un paio di anni fa quando Roger ti ha invitato alla sua ultima partita e l’ha voluta pure giocare con te al fianco, in un doppio strano di Laver Cup, due rivali che piano piano sono diventati amici, lassù in cima alla montagna del tennis, e piangono insieme, mano nella mano, quando uno smette e l’altro capisce che accadrà presto pure a lui.
I pinocchietti, le canottiere, le fasce per i capelli, i ruggiti, il rovescio a due mani perfetto e implacabile, un clamoroso diritto mancino a uncino o a banana, il top spin, la tattica che impari anno dopo anno, il gioco sotto rete che diventa sempre più efficace.
Le rimonte, gli infortuni tremendi, il fisico che ti implora di allentare la presa, la mente che ti impone di continuare, l’abisso dei cali in classifica e l’ascesa dei ritorni impetuosi al vertice. Il team come seconda famiglia, la moglie, il figlio, i genitori, l’accademia tennistica che hai fondato a Manacor, il calcetto come mantra quotidiano, gli scacchi nelle sale riservate ai giocatori con la rabbia di voler vincere sempre, sempre, anche tra alfieri e regine, in ogni cosa.
Tu e Roma, quel sorriso che ti spuntava ogni volta che giocavi agli Internazionali e realizzavi che in Italia avevi un secondo popolo innamorato di te. Il fango dell’inondazione a Maiorca, ottobre 2018, e tu che ospiti gli sfollati e spali il fango, e non volevi che si sapesse ma ti fecero un video e ti toccò il destino di diventare un santo laico per gli spagnoli e i tanti militanti della Nazione Nadal, ignota alla geografia del mondo ma presente nei cuori. Le battaglie con Djokovic, le sfide infinite con Federer, il numero uno in classifica e, certo, i quattordici Roland Garros che costituiscono un record che non vedremo infrangere. Due Wimbledon, due Australian Open, quattro Us Open, le risate con Roger in quel video famoso quando non riuscite a restare seri e vi contagiate improvvisamente, continuamente, di allegria.
Dopo l’ultima palla porterai tutto via con te, con le bottigliette d’acqua piazzate davanti alla sedia vuota. Ma tutti quei momenti non andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. Perché tu sei Rafael Nadal, hai sofferto e vinto, sei un fenomeno ma, inspiegabilmente, sei anche uno di noi. E quindi non ti dimenticheremo.
Fabrizio Brancoli