Alina, la geologa friulana che studia lo Ionio: «Tra i vulcani di fango cerchiamo l’antico oceano terrestre»
Studia da decenni il sistema di faglie che fa collassare la regione tra la Calabria e la Sicilia e ora, dopo aver coordinato la campagna oceanografica “Sirene” (Serpentinite/mud diapIRs along ExtensioNal faults in the Ionian sEa), Alina Polonia, la geologa friulana, nata e cresciuta tra Villa Santina e Preone, ricercatrice all’Istituto di scienze marine del Cnr di Bologna (Ismar-Cnr), studia i dati raccolti a bordo della nave Gaia Blu, nel mar Ionio meridionale, per andare alla ricerca del più antico oceano terrestre.
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Qual è l’obiettivo del progetto?
«Studiare l’attività di alcune strutture tettoniche presenti al largo del monte Etna, che innescano processi geologi particolari come lo sprofondamento del fondale marino e l’allontanamento dei blocchi crostali a cavallo delle faglie (calabro e siciliano). È una “finestra” geologica unica al mondo dove rocce che si trovano a oltre 20 km di profondità potrebbero risalire in prossimità del fondale marino lungo faglie profonde che ha generato i terremoti e gli tsunami storici più distruttivi in Italia e in Europa».
Potrebbero generarli ancora?
«Per capire se, e come, siano in grado di farlo dobbiamo caratterizzare la geometria delle strutture e la composizione delle rocce presenti lungo il piano di faglia. Gli strumenti geofisici a disposizione su Gaia Blu, la nave da ricerca del Cnr, permettono di ricostruire la morfologia del fondale marino, la deformazione dei sedimenti in prossimità delle strutture tettoniche e le loro caratteristiche magnetiche. Identificare anomalie magnetiche associate a rocce che si muovono lungo le faglie consentirebbe di dedurre la natura del materiale che risale e di costruire modelli di pericolosità sismica più affidabili in una delle zone più a rischio in Europa».
Quanti dati avete raccolto?
«Abbiamo acquisito migliaia di chilometri di dati morfologici che costituiranno un mosaico dettagliato del fondale, dati magnetici, ecografie del sottosuolo e recuperato campioni di sedimento e rocce dai fianchi di supposti vulcani sottomarini. Le analisi composizionali in laboratorio permetteranno di ricostruire i processi che controllano la venuta a giorno di fluidi e materiale profondi.
Cosa evidenziano le immagini?
Mostrano profonde incisioni che serpeggiano come grandi fiumi sottomarini controllati dall’attività delle faglie. Sono visibili sulle mappe come spaccature del fondale lungo le quali si allineano rilievi sottomarini. Si tratta di diapiri e vulcani di fango che si formano quando materiale profondo risale verso la superficie insieme a fluidi e gas, a volte generando eruzioni fluide e viscose. Alcuni vulcani hanno forma conica, altri sub-circolari molto corrugate e allungate nella direzione delle faglie, e spesso sono associati a frane sottomarine. Ricostruiremo la morfologia degli apparati e le proprietà fisiche dei materiali, per capire se sono alimentati da materiale vulcanico (non siamo lontani dall’Etna) o da risalita diapirica di rocce plastiche che si trovano nel mantello terrestre.
Quanto indietro pensate di andare nel tempo?
Il Mar Ionio è una depressione di oltre 4000 metri di profondità che ospita chilometri di sedimenti accumulati in decine di milioni di anni, registrando le vicissitudini geologiche tra Africa ed Europa. I sedimenti più vecchi dovrebbero avere circa 150 milioni di anni, si trovano a profondità elevate sotto il fondale marino e difficilmente raggiungibili. I dati geofisici acquisiti consentono di ottenere “ecografie” del sottosuolo per ricostruire la forma degli strati e capire quali processi hanno subito. È una delle zone più complesse e interessanti del pianeta, dove un oceano sta scomparendo per formare una nuova catena montuosa che si innalzerà al di sopra del livello marino nei prossimi milioni di anni.
È il più antico oceano terrestre?
«Se le ipotesi sono corrette, vicino al fondale marino potrebbero essere presenti frammenti della Tetide, il più antico oceano terrestre la cui età si aggira tra 150-200 milioni di anni. Questi frammenti che non sarebbero campionabili in nessun’altra regione marina perché ricoperti da chilometri di sedimenti, permetteranno di capire come si è formato questo vecchio oceano e come si sta “consumando”. Altri frammenti della Tetide si trovano nelle catene circum-mediterranee come Appennini, Alpi e Dinaridi dove però sono stati deformati e modificati dai processi di subduzione ed esumazione. Quelli dello Ionio dovrebbero invece essere porzioni della Tetide che non hanno subito cambiamenti significativi».
Cosa significa per la ricerca arrivare a questo punto?
La comunità dei geologi che lavora in area Mediterranea discute da decenni se la Tetide sia un vero oceano come l’attuale Atlantico, oppure un lembo di continente assottigliato che non è mai arrivato a una oceanizzazione. Prelevare materiale dal mantello dello Ionio consentirebbe di fornire risposte a queste incertezze e di ricostruire le vicissitudini della Tetide dalla sua nascita alla sua distruzione».
Cosa prova una ricercatrice quando documenta queste testimonianze?
«Essere a bordo di Gaia Blu è stata un’esperienza entusiasmante. I geologi che lavorano a terra hanno una osservazione diretta sulle rocce che studiano. La geologia marina richiede osservazioni geofisiche indirette che consegnano immagini a una risoluzione paragonabile a quella degli studi a terra. Osservare i dati mentre arrivano a bordo consente di entrare in contatto con il mondo sommerso e carpirne i segreti. È davvero emozionante».
In quanti mesi si prepara una campagna geofisica?
«È un processo lungo. Sono ricerche molto costose il cui accesso viene regolato in base alla qualità dei progetti presentati. La fase operativa richiede mesi di preparazione».
A quante campagne ha partecipato?
«Oltre allo Ionio, ho partecipato a campagne nel Pacifico al largo del Cile meridionale, nel Mediterraneo orientale al largo di Creta, nel mare di Galilea lungo la Faglia del Mar Morto e nel mare di Marmara lungo la Faglia nord Anatolica al largo di Istanbul. In ognuna abbiamo studiato le faglie attive lungo i limiti di placca che abbiano generato terremoti».
Nello Ionio si aspettava di rilevare questi dati?
«La campagna Sirene è stata un successo, possibile grazie alle tecnologie presenti sulla nave, un comandante e un equipaggio molto esperti e interessati alle attività scientifiche che ci hanno aiutato a operare in sicurezza, colleghi con cui discutere e condividere le scelte e ottime condizioni meteo che ci hanno consentito di lavorare al meglio».
L’allontanamento della Calabria dalla Sicilia può provocare altri terremoti?
«È un processo lento che avviene a tassi di qualche millimetro all’anno che causa il continuo accumulo di energia lungo le strutture tettoniche. Quando l’energia supera una certa soglia si generano i terremoti e questo dipende da fattori ancora poco vincolati come la litologia dei sedimenti in profondità, la presenza di fluidi lungo i piani di faglia e il tempo trascorso dall’ultimo terremoto. Queste strutture, lunghe e profonde, si possono considerare potenziali sorgenti per terremoti futuri anche forti come quello di Messina del 1908».
Penso al ponte sullo Stretto: questi studi possono cambiare la prospettiva?
«La zona investigata non è nello stretto di Messina e quindi non fornisce informazioni dirette sulla regione dove è stato proposto il ponte. Va comunque sottolineato che i processi che si verificano in un determinato volume “geologico” influenzano il comportamento delle regioni vicine, sia per la generazione dei terremoti che per l’instabilità dei versanti. L’attività tettonica della regione investigata dovrebbe essere presa in considerazione per una corretta valutazione del rischio anche nella zona dello Stretto».
Lei è carnica e ama la montagna: esiste un rapporto tra gli ambienti marini e montani?
«Sono nata in montagna in una regione che espone le rocce più antiche d’Italia e ho sempre avuto un rapporto speciale con i rilievi e le rocce che vi affiorano. Ho iniziato la mia carriera professionale lavorando a terra, rilevando un settore dell’alta valle del fiume Tagliamento e studiando le rocce della dolomia di Forni dove sono stati ritrovati i resti dei rettili volanti della valle di Preone. Esiste un rapporto profondo tra le catene montuose e gli ambienti marini. Nello mar Ionio, ad esempio, esiste una catena montuosa in embrione che si sta progressivamente sollevando con le stesse modalità che hanno permesso agli Appennini e alle Alpi di formarsi. Studiare l’ambiente marino consente di acquisire informazioni sull’evoluzione delle catene montuose e sui processi che modellano la superficie terrestre».
Ha studiato anche la sequenza dei terremoti registrata dal fondale del lago di Cavazzo?
«I sedimenti sono archivi del passato non sempre facili da decodificare. Nel lago di Cavazzo abbiamo ricostruito l’impatto della centrale idroelettrica e gli effetti dei terremoti del 6 maggio e 15 settembre 1976. Entrambi hanno provocato frane all’interno del lago marcate da depositi sismo-torbiditici. Se avessimo la possibilità di fare carotaggi lunghi sotto il lago di Cavazzo potremmo ricostruire quanti terremoti ci sono stati negli ultimi 10 mila anni e avere elementi per capire quando potrebbe verificarsi il prossimo evento».
Quanto ha inciso il sisma del 1976 nella sua formazione?
«È stata una esperienza che ha inciso profondamente la mia vita e la mia formazione. Fare esperienza del terremoto, mi ha messo a contatto in modo traumatico con le forze della natura e ha cambiato la prospettiva con cui osservavo la terra. Da base immobile e fissa su cui si svolgeva la mia vita da bambina è diventata qualcosa di estremamente dinamico che ha suscitato curiosità e interesse anche nei miei studi. Non a caso ho scelto di fare geologia e di occuparmi di faglie e terremoti».