Il poeta a Parigi, la Francia tormentata di Heinrich Heine in dialogo con le radici tedesche
A partire dagli anni dello Sturm und Drang – e almeno finché non s’è stampato, sui volti marziali del Volk inorgoglito, ma anche “del filisteo tedesco” (Croce), il Sedanlacheln, il sorriso antilatino di Sedan – sembra che la Germania, per poter cogliere il proprio carattere, sia costretta a osservarsi dalla Francia. Postazione privilegiata, per lo ‘spirito’ tedesco, per definire non solo ciò che gli è proprio, ma anche ciò che non sa essere.
Così già Kant, nel Conflitto delle facoltà, parlando degli spettatori non francesi della Rivoluzione, nota una “partecipazione di aspirazioni che quasi sconfina nell’entusiasmo”, puntualmente confermato dal passo di Rosenkranz dove si racconta che una domenica mattina, tre giovani d’eccezione – Hegel, Schelling e Hölderlin – si ritrovarono nei pressi di Tubinga per piantare l’Albero della Libertà; lo stesso con cui anche Goethe, in un famoso acquerello (1793), celebra la Repubblica di Magonza, d’ispirazione giacobina e destinata a durare appena qualche mese, con la scritta “Passans, cette terre est libre”, “Passante, questa terra è libera”.
Perché, a tutti gli effetti, oggetto della contesa, tra Francia e Germania, è l’idea di libertà. Quella che oggi, esacerbati dal cinismo, può sembrare la più retorica delle domande – che cosa significa essere liberi? – ha invece dominato il modo in cui les Lumières, i ‘lumi’ francesi, sono stati tradotti in Aufklärung, nel ‘rischiaramento’ tedesco. – E un anche rapido confronto tra i due termini lascia intravvedere come in Francia si tratti di fenomeno che è come tale sorgente di luce, mentre il concetto tedesco nomina un processo che necessita tempo e sforzo per potersi inverare, come a dire che la Germania è di per sé terra tutt’altro che nitida e ‘lampante’, ma può forse faticosamente diventarlo –.
Diremo allora che le poesie ‘francesi’ di Heine (1797-1856) – tradotte con gran esercizio d’orecchio da Gio Batta Bucciol e meritoriamente pubblicate da Molesini Editore di Venezia – s’impongono come osservatorio privilegiato per cogliere le innumerevoli perturbazioni che si dev’essere pronti a registrare seguendo l’evolversi del confronto tra Francia e Germania intorno alla questione della libertà.
È infatti anzitutto con essa che si misura Il poeta a Parigi (questo il titolo della raccolta), facendo dell’antinomia Francia/Germania la lente forse più penetrante per scrutinare criticamente il volume. Attraversando il quale sentimento storico e ragione morale oscillano nel modo più estremo:
– “[…] Non devi parlarmi della Germania – / non lo sopporto – ci sono dei motivi” (Kitty, p. 35). Sembra quasi una ripresa di Iperione a Bellarmino: “Non posso pensare a un popolo più lacerato dei tedeschi. Vedi artigiani, ma non uomini; pensatori, ma non uomini; religiosi, ma non uomini; padroni e servi, giovani e gente adulta, ma non uomini”.
– Ma invece: “Germania, amore mio lontano, / quasi mi assale il pianto, se penso a te! / L’allegra Francia mi sembra triste, / il suo popolo leggero mi è di peso” (Anno 1839, p. 55). Nostalgia per ciò che è profondo, perché (ancora Hölderlin) solo “chi ha pensato le cose più profonde, ama ciò che è più vivo”. Non potrà mai ammettere, un tedesco, che “il più profondo” possa essere “la pelle” (Valéry). Quella specchiante leggerezza, anzi, ispira infine una qualche patinata frivolezza da rotocalco: fantasmagorie da passage parigino e dunque passioni superflue, eleganti apostrofi di luce sui calici di una natura (però) morta.
– Eppure, per quanto implicitamente grande, “la Germania è ancora un bimbetto […]” (Germania, p. 63), perché non ha saputo farsi nazione. Agli occhi di Heine sembra anzi condannata a non poter mai trovare quella pacificazione che avrebbe dovuto unificare e dar risalto alla promessa di civiltà che incarna: “Per te, Germania, il lenzuolo funebre tessiamo: / digrignando i denti, seduti al telaio, / tre maledizioni nell’ordito intrecciamo” (I tessitori salesiani, p. 89). Con oscura distorsione mitologica, incluso il biblico “stridere di denti”, vediamo i fili del destino tedesco intrecciarsi in un sudario di dannazione e fallimento, immagine di una visceralità (tutt’altro che consueta alla giocosa levità di Heine) da crepuscolare disfacimento wagneriano.
L’inquietudine – ambivalente sofferta contrastata – che attraversa le pagine del poeta riflette l’enorme portata della posta in gioco. Ci rammenta cioè quanto sia fragile e difficile trasformare quest’arcipelago di nazioni al contempo simili e dissimili in una casa comune europea. Al cui centro, quale cardine dell’intero progetto – politico ma ancor prima spirituale – sta ancor oggi l’‘asse franco-tedesco’.
In questo nostro tempo, quanto mai cupo e minacciato, dove l’Europa paga ogni giorno il prezzo politico della propria inadeguatezza, arrancando inconsapevolmente sull’orlo del baratro, è ancora sulla distanza o sulla prossimità tra Francia e Germania che si misura la possibilità di un futuro. Rispetto alle preoccupazioni di Heine, non ci siamo mossi di un chilometro.
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