Monica, che spiega la morte ai bambini
Paradiso, aldilà, “volare in cielo”. Come si parla ai bambini della morte? E soprattutto, è giusto parlarne? Monica Cornali, 57 anni, psicologa clinica e tanatologa culturale di origine bergamasche, padovana d’adozione dal 1990, è convinta che «insegnare ai bambini che la morte fa parte della vita li aiuta a crescere integrando la finitezza umana, il limite».
«La morte va accolta come una sorella» dice, citando San Francesco. «La congiura del silenzio, pensando di proteggere i più piccoli dal dolore», aggiunge, «è un atteggiamento pedagogico invalidante». Esperta in formazione, ricerca e sostegno sui temi della perdita e del lutto, promuove laboratori di “Death education” nelle scuole. Ha un master in “Studi sulla morte e sul morire” (Death studies & the end of life) conseguito all’Università di Padova, proposta unica nel suo genere in Italia. Nei Paesi anglosassoni già da tempo si educa al sapersi mortali, contro superstizioni e ignoranza. «Solo così si può vivere la preziosità della vita», spiega, «Lo diceva già Seneca: “Se vuoi imparare a vivere, impara a morire”».
Cornali, i bambini hanno paura della morte?
«Crescendo i bambini incontrano continuamente il tema della morte nel mondo della natura, tutte le volte che muore una pianta o un animale, nelle conversazioni, nelle canzoni, in famiglia e con gli amici. Già dai due anni il bambino riconosce il vissuto della perdita, di qualcosa che prima c’è e poi non c’è più. Fin da ragazzina sono stata molto sensibile ai grandi temi della vita. Sentivo le campane suonare a morto, chiedevo spiegazioni senza riceverne. Dei molti modi in cui la morte viene trattata, il tentativo di ignorarla è quello che ha maggiori probabilità di fallire»
“Non è che ho paura di morire. Solo che non voglio esserci quando accadrà”, ha detto Woody Allen.
«Spesso sono gli adulti a non aver fatto i conti con il proprio limite, la propria mortalità. Sul tema della fragilità, del lutto, della morte bisogna investire su se stessi, prepararsi, assumere un baricentro solido. La comprensione della morte è un processo che dura dall’infanzia alla vecchiaia».
Lei ha fatto i conti con la sua mortalità?
«Ho perso entrambi i genitori mentre frequentavo il master a Padova. Ho affrontato le tappe della rielaborazione del lutto supportata da quello che stavo studiando, dai docenti, dai compagni di corso. La mia storia è diventata una sorta di laboratorio. Ha confermato la mia vocazione all’accompagnamento».
Quali sono le parole giuste per spiegare il concetto di mortalità ai più piccoli?
«Dipende dal livello di sviluppo psico-affettivo. Se in età prescolare può avere senso dirgli che la nonna è volata in cielo, quando il bimbo è più grande ha bisogno della conferma della reale morte della persona cara, altrimenti potrebbe passare mesi o anni nella ricerca o nell’attesa del ritorno. È importante usare un linguaggio corretto privo di eufemismi, chiedere al bambino se ha capito o se ha bisogno di spiegazioni».
Come si introduce il concetto di aldilà?
«I bambini fanno esperienza di “aldilà” ogni volta che vanno oltre le loro paure, le loro ferite, i loro egoismi. Bisogna educarli a ospitare l’eterno dentro di sé, a venire a contatto con quella parte spirituale, legata alla sfera dei valori, che è immortale».
È utile parlare di paradiso? Di angeli?
«A seconda della fascia di età e della visione familiare, ognuno può esprimersi come crede, ma non in maniera dogmatica. Se i bambini fanno domande specifiche è utile lasciarli parlare e immaginare. È importante sottolineare che la nonna è sempre con noi, possiamo parlarle, dirle delle cose, pur sapendo che non ci potrà rispondere».
Il concetto di morte è legato alla vecchiaia, se invece muore un fratello, un genitore?
«A 8-9 anni il bambino arriva a comprendere la morte come universale e irreversibile, andando avanti concettualizza la sua imprevedibilità. In questo caso è importante lasciare che il bambino esprima quello che prova e stargli vicino, senza timore di ammettere che siamo dentro un mistero e non abbiamo tutte le risposte».
Susanna Recchia, 45 anni, trevigiana, è l’ultima mamma che ha deciso di togliersi la vita lasciando tre figli. Nel caso di un suicidio in famiglia come ci si deve comportare?
«Studi scientifici ci dicono che è giusto e necessario parlarne. Si può affrontare il tema già in preadolescenza, verso i 12-13 anni, ma con piccoli particolarmente intelligenti e con una spiccata empatia emotiva, anche prima, verso i 9-10. Se non siamo noi a parlare di condotta autosoppressiva della vita saranno la tv, i social, il gruppo dei pari a farlo al posto nostro. I messaggi arriveranno inesatti, incompleti, creando confusione. Va trovata la forma giusta, si può evitare la parola suicidio, serve empatia. Si può spiegare che ci sono persone che stanno molto male, che non hanno potuto chiedere aiuto, che hanno tenuto i problemi per sé e che non ce l’hanno fatta a superare un periodo critico. Tutte le ricerche serie dicono che parlare di suicidio con i ragazzini abbassa il fattore di rischio emulazione».