Quel che resta di Hong Kong
L città che non dorme mai è entrata in coma farmacologico, sedata dal Grande Anestesista della democrazia asiatica, il presidente cinese Xi Jinping. Hong Kong non è più la vitale capitale del divertimento e della finanza d’Oriente, restituita nel 1997 dalla Gran Bretagna al regime comunista di Pechino dietro la promessa di rispettarne, per cinquant’anni, indipendenza, istituzioni e democrazia, secondo la formula: «Un Paese, due sistemi». Oggi è una città cinese come tutte le altre tanto da convincere il Financial Times a titolare un recente reportage: Hong Kong è finita.
In Patria però è vietato parlare di crisi: il giornalismo è stato preso in ostaggio e costretto a trasformarsi in pubblicità a favore dei padroni delle ferriere che abitano sotto la Grande Muraglia. Non ci sono spazi di manovra tanto meno compromessi: chi dissente, va in galera. Com’è capitato a due redattori della rivista Stand News, attualmente chiusa, arrestati nel dicembre 2021 e condannati a inizio settembre: Chung Pui-kuen e Patrick Lam sono stati ritenuti colpevoli di cospirazione e sedizione per aver apertamente criticato il governo locale (espressione diretta, ovviamente, del Celeste Impero) mettendo a repentaglio l’ordine pubblico. Quasi in contemporanea, tre dozzine di reporter non allineati sono stati minacciati con lettere, mail e comunicazioni social per i loro articoli. Un bombardamento che, nelle ultime settimane, si è esteso addirittura ai loro familiari come forma estrema di pressione per convincere i giornalisti ad abbandonare la posizione anti-Pechino. Il gigante del web, Wikipedia, è stato costretto a bannare, a livello mondiale, fatto più unico che raro, un profilo troll che, modificando le pagine dell’enciclopedia online, intimidiva e lanciava «pizzini» ostili nei confronti dei reporter sgraditi fino ad augurarne il licenziamento o addirittura la morte. Non è un caso, dunque, che Hong Kong sia precipitata dalla diciottesima alla centotrentacinquesima posizione nella classifica sulla libertà di stampa nel giro di appena vent’anni. Gli stessi vent’anni che sono serviti al Grande Timoniere cinese per piegare la resistenza dell’ex colonia con leggi liberticide sulla sicurezza, l’educazione patriottica e le elezioni: oltre ai giornali, è stato sciolto addirittura un partito – Demosisto – che coltivava la velleità di poter fare opposizione sul modello occidentale. È stata poi creata una specifica commissione per valutare l’idoneità e i valori patriottici di ogni candidato alle elezioni. Una radiografia che certamente non facilita il pluralismo e la difesa dei principi della rappresentatività.
Nel febbraio 2023 è iniziato il processo a 47 attivisti accusati di sovversione: tra loro ci sono politici, ex parlamentari e intellettuali. A giudicarli sarà un tribunale speciale: la giuria è stata abolita e i giudici sono stati scelti dal governatore John Lee, gradito alla Cina. Già 31 imputati si sono dichiarati colpevoli pur di ottenere uno sconto di pena mentre, dei restanti 16, due sono stati miracolosamente assolti e gli altri 14 rischiano l’ergastolo. Il carcere a vita per un’opinione trattata alla stregua di un tentativo di rivoluzione. Quelli che hanno la possibilità (e i soldi), scappano senza pensarci due volte. Nel 2022 oltre 60 mila cittadini sono andati in cerca di condizioni meno afflittive di vita. Un esodo come mai era accaduto nell’ultimo trentennio.
Nel giro di un lustro, sono stati quasi 150 mila gli honkonghesi che hanno abbandonato casa e lavoro per approdare verso altri lidi, sostituiti da flussi migratori di cinesi provenienti dal continente che ne hanno preso il posto. L’economia non va meglio: la Borsa segna continui record negativi e le multinazionali straniere stanno traslocando dopo le abbuffate del secolo scorso.
Il mercato immobiliare sta precipitando: si moltiplicano di giorno in giorno le svendite di appartamenti e uffici che fino a qualche tempo fa erano quasi inaccessibili per i prezzi alla quasi totalità della popolazione. Interi edifici sono desolatamente vuoti mentre le associazioni di inquilini protestano per gli affitti che, invece, non smettono di crescere nell’indifferenza della politica che non vuole mettersi contro i ricchi e influenti imprenditori del settore. Ce ne sarebbe, insomma, per provare a dimenticare tutti questi guai con un bicchierino, ma pure una pinta di birra o un calice di vino son diventati dei miraggi a queste latitudini. La stessa industria del by night sta subendo colpi pesantissimi: sono lontani i tempi dei rave e delle feste che duravano giorni interi e dei locali affollati a ogni ora della notte.
Si è rivelata una bugia la promessa che l’allora leader cinese Deng Xiaoping, al momento del passaggio di consegne tra Londra e Pechino, fece ai cittadini di Hong Kong per rassicuararli che nulla sarebbe cambiato sotto il nuovo padrone: «I cavalli continueranno a correre, le azioni continueranno a sfrigolare e i ballerini continueranno a ballare». Nei primi sei mesi del 2023, i bar hanno incassato il 18 per cento in meno rispetto al 2019 (89 milioni contro 108,5) a dimostrazione che il motto: «Tutto è concesso» ormai non vale più.
Hong Kong ha perso il tocco magico se addirittura rischiano di chiudere per mancanza d’affari le tre «ambasciate» in terra americana: a Washington, New York e San Francisco. Né sembra baciata dal successo l’iniziativa di trasformare la regione in un hub globale per le criptovalute: finora ci sono solo due piattaforme autorizzate. Troppo poco per tentare di lanciare l’assalto a un mercato mondiale in continua evoluzione. Con l’economia legale che arretra, quella malavitosa si fa baldanzosamente avanti: aumentano i reati finanziari e predatori. Poche settimane fa, la polizia ha sequestrato il più grande quantitativo di metanfetamina mai transitato per il territorio di Hong Kong: un «tesoro» da 25 milioni di euro che sarebbe andato ad arricchire la Triade cinese. Triste è il destino di quel Paese che teme la libertà più del crimine. n
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