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Сентябрь
2024

Un giornale da sempre legato al territorio: fatto per i bellunesi ma aperto sul mondo

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A rileggerli oggi, a distanza di trent’anni da quel 27 settembre del 1994, gli articoli con il quale il Corriere delle Alpi si presentava ai bellunesi non hanno perso una virgola di attualità. Un giornale «legato al territorio e aperto sul mondo». Un giornale «fatto dai bellunesi, con il loro contributo, la loro presenza, le proposte e le critiche». E ancora: «consapevoli che i fatti sono sacri e i commenti liberi».

Avrebbe raccontato, il Corriere delle Alpi, «le luci e le ombre di una provincia grande e bella», e lo avrebbe fatto «attraverso i fatti, giorno per giorno, leggendoli in modo attento e in chiave critica, cercando di cogliere con anticipo ciò che di nuovo avanza», e non «dalle finestre dei Palazzi, ma dalla parte della gente. Anzi, dei cittadini».

Belle cose. Non si dice sempre così nei programmi? Sì e no. Si prometteva un giornale aperto a chiunque avesse qualcosa da dire. Si prometteva uno sguardo critico sulla realtà. Si prometteva un modo di fare un giornalismo non reticente, non pigro né tantomeno sdraiato o ossequiente, capace di offrire anche un proprio punto di vista, sempre nel rispetto dei fatti e aperto alle critiche, anche le più dure. Anzi, sarebbero state le benvenute, si sarebbe aperto un bel dibattito. Grasso che cola. Un programma che era anche una scommessa, perché trovava il proprio spazio nella cronaca più scrupolosa ma anche nella critica.

Nel prendere posizione, se necessario, e di dichiararlo apertamente.

Tutto il contrario di quel comodo “placare, sedare” che spesso segna la vita provinciale. Voleva essere un giornale un po’ pungente. Ed anche un po’ scomodo. Per chi lo leggeva e per chi lo faceva. Dite che è poco? Il gruppo dei redattori all’inizio era piccolo, ma in compenso era animato da un certo spirito di avventura (non di avventurismo), dunque da quell’ottimismo della volontà che accompagna le nuove intraprese, capace di dedicarvisi anima e corpo. Ovvio che fare un giornale non è come scavare carbone in miniera, però non sottovalutate la fatica. Ci vuole un fisico bestiale. E più da maratoneti che da centometristi.

Il giornale ebbe fin dall’inizio un vantaggio e uno svantaggio. La provincia di Belluno è l’unica interamente montana, ma è nel Veneto, regione che sta per l’80 per cento in pianura o in collina. Era, all’epoca, l’ultimo nato dei giornali locali del gruppo di Repubblica-L’Espresso. Faceva dunque capo alla Finegil, la società che pubblicava i giornali locali. Alla fine di un confronto interno fra l’Editoriale Quotidiani Veneti (il Mattino di Padova, la Tribuna di Treviso, la Nuova Venezia) e la Seta (l’Alto Adige, e in seguito il Trentino) la spuntò quest’ultima società, che già da qualche tempo pubblicava alcune pagine dell’Alto Adige dedicate alla cronaca bellunese. Il vantaggio fu che anche il Trentino e l’Alto Adige erano terre di montagna – dunque ne conoscevano molto meglio i problemi – lo svantaggio che il Corriere delle Alpi non conteneva, all’inizio, un’adeguata cronaca veneta.

Nonostante questo limite, o forse perfino grazie a questo, il giornale centrò l’obiettivo di essere “la voce della montagna”, di interpretarne le istanze, i bisogni, le aspirazioni. Il modo di vedere la montagna da parte di chi abita le pianure e le città è molto diverso da chi la montagna la popola, la vive, ci lavora. La questione è antica. Tanto per dire: per Tito Livio le montagne erano le «infames frigoribus Alpes»; e l’abate Stoppani, risalendo il Cordevole, non ci vedeva «Il bel Paese», ma un’accozzaglia orrida e minacciosa di guglie e di rupi.

Mica sono, le montagne, le dolci colline del prosecco, il dondolio di una barca in laguna, il riposante liscio orizzonte del mare calmo, e nemmeno il geometrico e razionale reticolo urbano. Sono un ostacolo alle comunicazioni (ci si faccia un’autostrada, perbacco, le si sbanchi), o una stravagante verticalità (mettiamoci una cabinovia), una risorsa da sfruttare (una diga qui, un’altra lì, molte valli da sommergere), una specie di parco giochi per ritemprare lo spirito.

Il Corriere delle Alpi, fin dal primo giorno, metteva in guardia: la montagna, un tempo povera, non era più «marginale e isolata», eppure il suo futuro era ancora «denso di pericoli», anche se non bisognava cadere nel vecchio sport della lamentazione: «Il turismo di massa porta ricchezza ma può portare anche un uso selvaggio del territorio. E chi quel territorio lo abita può perdersi, può infine distruggere quell’ambiente e quel paesaggio che non sono solo materia prima per fabbricare ricchezza».

Il giornale fu sempre fedele a questa visione. Lo fu dando spazio e voce a tutti (chi non lo fece, fu per sua scelta o incomprensione).

E fu con questa angolazione che entrò sempre nel vivo dei problemi: il vivere in montagna, i servizi carenti e difficili, lo spopolamento delle terre alte, la viabilità e la vivibilità, lo sfruttamento dei fiumi e dei torrenti. Ma anche il recupero della memoria del Vajont, superando l’oblio che attorno a questo “disastro annunciato” si era venuto costruendo negli anni.

Le battaglie per l’acqua, un “bene comune” minacciato dal proliferare di piccoli impianti idroelettrici e anche da progetti di nuove dighe. Il riconoscimento da parte dell’Unesco delle Dolomiti come patrimonio dell’umanità. I “nuovi bellunesi”, che arrivano da altri orizzonti e potrebbero ripopolare, almeno in parte, le montagne abbandonate. E la lunga battaglia per una maggiore autonomia o autogoverno della provincia, ottenuta sulla carta di una legge regionale ancora non applicata.

@Riproduzioneriservata