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Сентябрь
2024

Con “Il tempo che ci vuole” Francesca Comencini mette in scena la storia di famiglia

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Un padre, Luigi, una figlia, Francesca, un cognome importante, Comencini. Importante per l’album di famiglia, importante per la storia del cinema italiano. Con “Il tempo che ci vuole”, presentato a Venezia ma tagliato assurdamente fuori dai giochi, Francesca Comencini mette in scena se stessa e le proprie radici: un atto di grande coraggio, perché guardarsi allo specchio non è mai facile, e un atto di grande sincerità, perché le anime fragili tendono a nascondersi. A proteggersi. Tutto sembra portare all’ennesimo racconto biografico, certo, però “Il tempo che ci vuole” è un racconto biografico solo nella sostanza: l’impaginazione e le scelte narrative lasciano infatti che la memoria si tinga di sogno e che il realismo buchi lo schermo quando diventa davvero necessario un segnalibro.

Prima incontriamo Francesca bambina (l’absolute beginner Anna Mangiocavallo vi ruberà il cuore!), piena d’incanto per un papà speciale che fa un mestiere speciale, poi la ritroviamo cresciuta, arrabbiata, insicura, disillusa, lontana dall’incanto e lontana dal papà. I riflettori dei set si sono spenti, la favola è finita. La favola di Francesca, la stessa Francesca che da piccola aveva paura degli squali e delle balene, e anche la favola di un intero paese (dalla tivù in bianco e nero, dentro cui abitavano “Le avventure di Pinocchio”, non smettono di sgorgare le cronache degli Anni di Piombo).

“Il tempo che ci vuole” parla d’amore e parla di salvezza. Parla di un padre che salva la figlia e parla di una figlia che, ora matura e risolta, sorride teneramente al padre attraverso un film bellissimo. Un film dove regia e scrittura non lasciano campo libero al sentimentalismo, o alla commozione più scontata, e dove giganteggiano due attori in evidente stato di grazia: Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano.