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Сентябрь
2024

L'addio al basket giocato di Michele Antonutti

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Michele Antonutti dice basta e appende le scarpette al fatidico chiodo. A 38 anni e 7 mesi lascia il basket giocato, dopo una lunga carriera iniziata nella sua Pasian di Prato e conclusa nella scorsa stagione a Monfalcone. La ripercorriamo in quest’intervista esclusiva, che anticipa il videoclip con le sue tappe salienti che oggi verrà diffuso online.

Antonutti, perché ha deciso di lasciare?

«Nei mesi scorsi mi hanno cercato diverse squadre, anche in serie A2. Ho detto basta perché avevo un’idea in testa: io amo il basket e lo rispetto. Quando ho sentito di non poter più dare il massimo di me stesso, mentalmente e fisicamente, ho capito che avrei dovuto smettere. In carriera ho parlato con tanti campioni, tutti mi hanno detto la stessa cosa: meglio lasciare un anno prima che uno dopo. Questa cosa mi è rimasta bene impressa».

Con quale aggettivo descriverebbe la sua carriera?

«Ne uso due: intensa ed emozionante. Essere molto spesso in prima linea, capitanoin molte squadre in cui ho giocato, faceva sì che io dessi qualcosa in più anche fuori dal campo».

Com’è nato il soprannome “Il Cigno di Colloredo”?

«I giornalisti del mio periodo alla Snaidero mi chiamarono così, perché dicevano che avevo leve lunghe e movenze eleganti. Qualcuno mi accostava anche al “Cigno di Utrecht”, cioè Marco Van Basten».

La partita più bella della sua carriera?

«Non ne ho una. Ogni volta che ci penso, mi vengono in mente mille flashback e rivivo tutti i particolari. È accaduto anche vedendo il video in uscita oggi».

La gioia più grande?

«L’Eurochallenge vinta con Reggio Emilia è stata una grande emozione, ma anche la Coppa Italia di A2 con l’Apu. Una gioia enorme la provo quando mi fermano i ragazzini e dicono che sono stato d’ispirazione per loro».

La delusione più cocente?

«Emotivamente dove non sono stato capito. Dal punto di vista dei risultati, dico le due finali play-off perse con l’Apu, ci sono stato malissimo. Però mi hanno insegnato tanto, anche se avevo 35/36 anni».

Lei è stato fermo per mesi per aver contratto il Covd. Cosa le ha lasciato quel periodo?

«Mi ha insegnato che tutte le priorità della vita cambiano quando non si sta bene. Ogni bene materiale sparisce. Porto ancora il ricordo del lutto per la morte dell’amico Alessandro Talotti, che un giorno mi disse: “La cosa più bella è quando bevo un bicchiere d’acqua”. Mi ha girato ogni prospettiva».

Qual è il coach con cui ha legato di più?

«Ognuno di loro mi ha dato qualcosa. Il primo che mi ha insegnato a essere giocatore è stato Gigi Colosetti, da tutti gli altri ho preso cose che mi sono utili tuttora dietro a una scrivania».

La tifoseria con cui ha legato maggiormente?

«Quella della Nazionale, perché avendo vestito l’azzurro, che io andassi a Napoli, Bari, Trieste o Bormio ti tifosi erano sempre con me. Mi dicevano «ti ho sempre fischiato, ma qui tifo per te» e mi faceva capire che la maglia della Nazionale è magica perché unisce».

Il compagno più forte di sempre?

«Ho giocato con tanti campioni. A 16 anni ero in spogliatoio con Jerome Allen, sono arrivato in Nazionale e mi allenavo con Danilo Gallinari, ho alzato l’Eurochallenge assieme a Rimantas Kaukenas».

La Coppa Italia vinta con l’Apu che significato ha per lei?

«È stata una gioia immensa. Sia perché un trofeo mancava a Udine dal 1976, sia perché da bambino a scuola dicevo “vincerò una coppa a Udine” e i compagni si mettevano a ridere».

Domenica inizia il campionato dell’Apu. Cosa si aspetta?

«Che ogni giocatore capisca cosa si aspetta il tifoso udinese, cioè che il gruppo viene prima del singolo. Dalle difficoltà, che prima o poi arriveranno, si esce assieme. Voglio un’Apu con questo spirito, questa squadra può e deve lottare per stare con le grandi».