Missili e sostegno all’Ucraina. Kiev aspetta la Von der Leyen e intanto colpisce in Russia
Una questione di missili, anzitutto. Quelli che Kiev pretende da Usa e Ue ma che questi ultimi, per capricci o ritrosie politiche che spesso poco c’azzeccano con il pacifismo e la strategia militare, concedono con il contagocce. E poi una questione di autorizzazione sull’uso di quegli stessi missili. Già, proprio così. Perché, non essendo di proprietà ucraina, il governo di Kiev deverispettare i contratti vincolanti stipulati con i fornitori occidentali, in alcuni casi anche prima della guerra. Contratti che, per esempio, impediscono di colpire obiettivi oltreconfine (leggi Russia) alle forze armate ucraine, che pertanto spesso sonocostrette a fabbricare droni kamikaze artigianali e «creativi» (ultimamente, ne hanno tirata fuori una serie fatta di parti di legnoda assemblare) per riuscire a colpire le linee nemiche.
Intanto, però, qualche passo in avanti sull’impasse burocratica è stato fatto: con una risoluzione anche se non vincolante – che giunge, non a caso, alla vigilia del primo viaggio a Kiev della neo eletta Ursula von der Leyen, confermata presidente della Commissione europea – l’Europarlamento ha votato in favore della revoca sulle attuali restrizioni all’uso dei missili da parte di Kiev. L’organo legislativo di Bruxelles (che legifera insieme alla Commissione) ha stabilito che i singoli Paesi Ue dovrebbero concedere nuovi permessi per attaccare Mosca laddove fa più male.
Un incentivo in tal senso arriva anche dal grande colpo portato la scorsa notte dall’aviazione ucraina a Toropets, nella regione russa di Tver. Là Kiev ha appena distrutto uno dei piùimportanti depositi dell’intera Federazione Russa, dove erano stoccate circa 30 mila tonnellate di munizioni, comprese armi balistiche ad alta precisione: come i famigerati missili balistici Iskander e i sistemi di difesa aerea più avanzati dell’industria bellica russa, gli S-300 e gli S-400, oltre ai classici sistemi Grad e ai nuovi Kn24 nordcoreani.
Una mossa strategica che va in direzione delle regole d’ingaggio pretese dagli alleati di Kiev: colpire solo obiettivi militari. Detto fatto. La distruzione del deposito russo (che si trova a circa 480 chilometri dal confine ucraino), ha causato un’esplosione così potente da essere registrata come un terremoto di magnitudo 2.8. Uno strike efficace, dunque, e importantissimo, che fa guadagnare tempo a Kiev e per arginare lo schiacciasassi del Cremlino, una macchina bellica infernale che da mesi martella senza soluzione di continuità e indiscriminatamente tanto le linee del fronte come le città.
Il colpo dimostra una volta di più come l’Ucraina possaessere efficace e chirurgica, se messa nelle condizioni di rispondere. Tutto questo guasta i piani di Vladimir Putin, che aveva chiesto al suo esercito di riprendere entro il primo ottobre la regione del Kursk invasa lo scorso agosto da diverse brigate meccanizzate e aviotrasportate di Kiev, che a sorpresa avevanosfondato il confine all’altezza di Sudzha, 400 miglia a sud-ovest di Mosca, cogliendo i russi del tutto impreparati.
Ora che anche quelle armi sono andate in fumo, difficilmente il Cremlino potrà rispettare il calendario che pretendeva il presidente Putin per sigillare il confine. Tantomeno Mosca potrà continuare a bombardare «alla cieca» le città ucraine più vicine ai confini Ue quali Odessa e Leopoli, prese di mira dall’artiglieria russa più per rappresaglia che non per un vero interesse strategico (a meno che non si voglia sostenere che terrorizzare e sterminare la popolazione civile con piogge di missili sia una precisa strategia).
L’umore nei palazzi del Cremlino, infatti, non è dei migliori. Ben più di qualcosa non ha funzionato: anzitutto le contraeree, ma anche l’ingegneria militare. Nel 2018 l’allora viceministro della Difesa russo Dmitrij Bulgakov, parlando proprio del grande deposito esploso a Toropets, nella regione di Tver, aveva sostenuto che Mosca aveva costruito un «moderno arsenale per lo stoccaggio sicuro di missili, munizioni ed esplosivi dotato di depositi in calcestruzzo avanzati, progettati per resistere ad attacchi missilistici ed esplosioni nucleari».
Evidentemente non era vero: è bastato un semplice attacco di droni a polverizzarlo, insieme alla credibilità e alla tracotanza dei comandi militari russi. Che, umiliati, si sono visti costretti a reiterare la solita minaccia nucleare alla quale i portavoce del Cremlino ormai ci hanno abituato come riflesso condizionato a ogni sconfitta patita.
La realtà dei fatti dimostra che Kiev non ha intenzione di scatenare un olocausto nucleare, mentre ha piena consapevolezza degli obiettivi militari da colpire in Russia. E infatti ne ha fornito un dettagliato elenco agli USA e al Regno Unito, dove compaiono: centri di comando di movimentazione logistica, depositi di carburante e armi, aree di concentrazione delle truppe. Insistendo per questa via e con la copertura degli alleati, l’alto comando ucraino è convinto di poter costringere Mosca a sedersi aquel tavolo di negoziati che il presidente Zelensky sta apparecchiando con gli sherpa internazionali (un primo passaggio è previsto a novembre).
Ora, sarà anche vero, come dice John F. Kirby del Pentagono citando il ministro della Difesa Lloyd Austin, che «la valutazione secondo cui basta dare agli ucraini gli ATACMS e dire loro che saranno in grado di colpire la maggior parte degli aerei e delle basi aeree russe che vengono utilizzate per colpirli non è vera, è un equivoco» perché la Russia ha già spostato le sue bombe plananti oltre la gittata dei missili ATACMS.
Eppure, se anche la revoca delle restrizioni sulle armi fornite all’Ucraina non cambierebbe le sorti della guerra, offrirebbe comunque a Kiev del tempo prezioso per rifiatare e ridurrebbe la minaccia di ipotetici attacchi russi negli Stati baltici e in Polonia, e di rappresaglie ben oltre il fronte orientale («un missile Sarmat può arrivare a Strasburgo in 3 minuti» minacciava giusti ieri il Cremlino).
Se cioè Kiev potesse sfruttare le armi occidentali per garantirsi maggiori difese aeree e distruggere altri impianti di produzione e stoccaggio armi, questo non andrebbe nella direzione di de-escalation desiderata anche da Washington e Bruxelles? Secondo i partiti italiani Lega, Movimento 5 Stelle e l’Alleanza Verdi e Sinistra – che hanno votato contro la risoluzione dell’Aula di Strasburgo – non è così. E tuttavia anche l’Italia si accoderà alle decisioni comunitarie, visto che il sostegno militare all’Ucraina da parte del nostro governo non è in discussione. Ma, come al solito, i partiti italiani si dimostranocomunque i più confusi e imbarazzati d’Europa sul tema, a dimostrazione di quanto il nostro Paese – anche di fronte a una questione vitale e internazionale come una guerra – riduca sempre tutto a un tornaconto elettorale.