Rotta balcanica, gli abusi della polizia bulgara sui volontari Italiani al confine con la Turchia. “Abbiamo trovato decine di migranti morti”
Da quando nel 2022 entrare in Grecia è diventato sempre più complicato, il flusso di migranti che passa dalla Turchia si è diretto verso la Bulgaria, verso un confine che è diventato sempre più violento. Su quel confine, a giugno dell’anno scorso sono arrivati anche i volontari del Collettivo Rotte balcaniche Alto vicentino. Inizialmente per dare sostegno alle migliaia di migranti, per lo più siriani, che affollano il campo di Harmanli, a 50 chilometri dal confine turco, tra i più grandi campi del Paese (1.700 persone a gennaio 2024) e già noto per le dure condizioni di vita. Ben presto, racconta Giovanni Marenda del Collettivo, “ci siamo attivati con un progetto che abbiamo chiamato ‘Safe line‘ per soccorrere persone in emergenza bloccate nei boschi lungo il confine”. Si tratta di persone che nel tentativo di attraversamento rimangono ferite, impigliate nel filo spinato, disidratate o più semplicemente esauste e incapaci di proseguire. In collaborazione con una associazione siriana e una bulgara, i volontari ricevono le segnalazioni e partono per andare a cercare queste persone. “Sono decine i corpi che abbiamo trovato nei boschi nell’ultimo anno, cinque solo negli ultimi due mesi”, spiega il Collettivo, che sulla frontiera bulgara e le condizioni nel campo di Harmanli ha pubblicato quest’anno un report aggiornato.
A rendere ancora più pericolosa questa frontiera europea è la polizia bulgara, che nel 2023 ha moltiplicato i respingimenti, spesso non documentati e accompagnati da torture e trattamenti inumani e degradanti. Il Border violence monitoring network ha raccolto testimonianze e denunciato “calci, percosse con manganelli, furti di effetti personali, compresi i telefoni, attacchi di cani (pratica costante delle guardie di frontiera bulgare che continua a non essere indagata), uso di armi da fuoco per garantire il rispetto delle regole, detenzione illegale e negazione di cibo e servizi sanitari durante la privazione della libertà”, riporta Altreconomia. Per attraversare la frontiera tra boschi e alture possono volerci giorni, dai tre ai cinque, spiegano al fatto i volontari vicentini. I pericoli di un confine sempre più blindato e pericoloso hanno reso il passaggio il più caro di tutta la Rotta balcanica: “I passatori chiedono almeno 4.000 euro per entrare in Bulgaria e attraversarla”. Si passa di meno, si tenta più volte, ma si passa ancora. Certo, chi viene intercettato dalla polizia è facilmente derubato, anche del cellulare, spogliato di tutto e abbandonato oltre confine. Un trattamento che è costato la vita a molti, “anche minorenni come Alì, poi ritrovato senza vita sul lato turco del confine”, racconta Marenda ricordando che non sono mancati casi di minori contro i quali la polizia ha usato armi da fuoco. “Nel 2022 eravamo in Serbia e tante persone ci parlavano di quello che avevano subito sul confine bulgaro, così ci siamo organizzati”.
L’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, Frontex, è presente sul confine con 165 agenti. Un impegno rinnovato a giugno nel quadro dello Strumento per la gestione delle frontiere e dei visti (BMVI) che per la Bulgaria stanzia 85 milioni di euro e mette in campo tecnologie sempre più avanzate. Ma secondo alcune inchieste giornalistiche, il modo di operare della polizia bulgara ha già portato a contrasti con Frontex che (almeno in teoria) sarebbe tenuta a registrare e comunicare tutto proprio per evitare pratiche illegali, respingimenti compresi. Tanto più fastidiosa deve risultare la presenza di volontari internazionali che diventano diretti testimoni di violenze e abusi che, spiegano questi, “spingono le persone verso percorsi ancora più rischiosi, a volte verso la morte”. Così, è scritto in un loro comunicato dei giorni scorsi, “tra il 10 e l’11 settembre 2024, un gruppo di volontari internazionali appartenente al Collettivo Rotte Balcaniche e a No Name Kitchen ha subito una grave violazione dei propri diritti da parte della polizia di frontiera bulgara nella regione di Malko Tarnovo. L’incidente è avvenuto dopo che i volontari avevano soccorso 10 persone, tra cui tre bambini e due donne, rimaste senza cibo e acqua per tre giorni in un’area nota per gli alti tassi di mortalità tra le persone in movimento. Al momento dell’arrivo dei volontari, uno dei bambini era privo di conoscenza”. Come sempre in questi casi, i volontari avvertono le autorità. “Non lo facciamo prima perché è già capitato che, arrivando sul posto prima di noi, la polizia abbia respinto le persone senza offrire loro alcuna assistenza. Anzi peggiorando la situazione, a volte con conseguenze estreme”, spiega Marenda. “Dopo aver allertato le autorità, i volontari sono stati falsamente accusati di “smuggling” (contrabbando) – continua il comunicato –, e sottoposti a gravi minacce e violenze fisiche da parte degli agenti della polizia di frontiera – alcuni sono stati presi per il collo e gettati a terra. Sono stati arbitrariamente detenuti per oltre 21 ore presso la stazione di polizia di frontiera di Malko Tarnovo, dove sono stati negati i loro diritti fondamentali”.
Gli arrestati, tra cui alcuni spagnoli e un francese, denunciano di aver subito “perquisizioni fisiche invasive e aggressioni, negazione del diritto alla difesa legale, sequestro di effetti personali, inclusi i telefoni cellulari, negazione dell’assistenza medica necessaria e continui insulti razziali e abusi verbali”. Secondo il comunicato, l’episodio sarebbe “solo l’ultimo caso di una lunga serie di pressioni da parte della polizia di frontiera bulgara su volontari internazionali ed in particolare sul nostro gruppo”. Che ha una presenza costante di 5 o 6 persone. Non ultimo, gli attivisti si stanno impegnando a garantire un funerale a chi, appena ritrovato, non ha nemmeno un’identità. A mettersi in contatto con le famiglie in Turchia o nel Paese di origine perché possano venire a conoscenza del destino del loro parente e conoscere il luogo dove riposa. “Ci sono persone disperse da mesi o addirittura anni, con i familiari che li cercano e magari sono stati sepolti senza un nome”, spiega Marenda. Che avverte: “Per i siriani la Turchia non è più il Paese che, con miliardi di fondi europei, ne ha accolti fino a tre milioni. La situazione è cambiata e anche la politica governativa nei loro confronti, mentre nella capitale Istanbul ci sono veri e propri raid contro i siriani”. Una situazione che spinge tanti, già fuggiti dalla Siria dove non possono tornare, a scappare anche dalla Turchia. Intanto, però, l’Ue inizia a respingere anche le domande d’asilo dei siriani, e a “rimpatriarli” in Turchia. Il nuovo Patto europeo su migranti e asilo approvato a maggio dal Parlamento europeo terrà in considerazione il “legame” tra un richiedente asilo e i Paesi di transito che ha attraversato, per poter respingere la sua richiesta e rimandarlo in uno di quei Paesi. Una soluzione che sembra fatta su misura per i siriani che la stessa Ue ha voluto bloccati in Turchia.
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