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La guerra mondiale per l'acciaio

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I gruppi siderurgici mondiali sono alle prese con la crisi economica e l’export di manufatti a basso costo da parte della Cina. Un mix micidiale, che in Italia è aggravato dall’alto prezzo dell’energia elettrica e dall’incertezza sulla sorte dell’ex Ilva. Così non resta che spegnere gli impianti.

La bufera che sta investendo l’industria europea dell’acciaio inizia a fare le prime vittime. Liberty Steel Group, colosso britannico che fa capo all’imprenditore indiano Sanjeev Gupta, è in difficoltà dall’autunno dello scorso anno e nelle scorse settimane la crisi si è aggravata. Tanto che il gruppo ha dovuto annunciare un pesante piano di ristrutturazione che coinvolge gli impianti nel continente. In particolare sono previsti massicci licenziamenti nello stabilimento di Ostrava in Repubblica Ceca: fino a 2.600 lavoratori ora rischiano il licenziamento. In Germania ThyssenKrupp continua a rivedere al ribasso le previsioni sugli utili, il titolo ha perso in Borsa più di metà del suo valore nel giro di un anno e la sua divisione siderurgica, la ThyssenKrupp Steel Europe, si è trovata improvvisamente senza amministratore delegato, che ha abbandonato la nave insieme ad altri cinque membri del consiglio di amministrazione e di sorveglianza in polemica sul piano di ristrutturazione imposto dalla capogruppo. In Italia Arvedi Acciai Speciali Terni ha deciso di fermare per una settimana uno dei due forni elettrici «a causa del perdurare degli alti costi energetici che non consentono all’azienda di essere competitiva nei confronti delle crescenti importazioni dall’Asia a prezzi stracciati». Il produttore di acciaio inox circa un milione di tonnellate all’anno e 2.300 dipendenti) sostiene infatti che lo stabilimento di Terni quest’anno ha pagato in media 97 euro a megawattora, contro i 62 della Spagna, i 32 della Germania o i 21 della Francia.

Il costo dell’energia e della decarbonizzazione è solo uno dei problemi che stanno mettendo in grave difficoltà la siderurgia europea, un settore da circa 191 miliardi di euro di fatturato con 303 mila dipendenti. Il primo è il calo della domanda nel Vecchio continente: dal 2019 al 2023 i consumi sono diminuiti quasi costantemente, in quattro anni su cinque. Un rallentamento esacerbato dalla crisi che colpisce i maggiori settori che utilizzano l’acciaio, come le costruzioni, che coprono il 35 per cento della domanda, e l’automotive (il 18 per cento circa). Nei primi tre mesi del 2024 i consumi di acciaio in Europa sono scesi del 3,1 per cento. Eurofer, l’associazione dei produttori, prevede che i comparti che utilizzano questo metallo, dopo un calo nel primo trimestre (-1,9 per cento), subiranno una recessione più profonda del previsto nel resto dell’anno. Una ripresa è attesa solo nel 2025. Il risultato è che la produzione delle acciaierie europee è ai minimi storici. Una domanda in frenata provoca come naturale una caduta dei prezzi e di conseguenza una pressione sui bilanci delle aziende. Dall’inizio di quest’anno le quotazioni sono in calo dell’11 per cento, dopo un 2023 che aveva registrato una tendenza al ribasso, seppur meno drammatica. Ma il crollo dei prezzi non è dovuto solo alle minori richieste del mercato: è provocato anche dalla Cina.

Il grande Paese asiatico è il leader mondiale della siderurgia: nel 2023 a fronte di una produzione globale di acciaio di 1,8 miliardi di tonnellate, le imprese cinesi ne hanno sfornato più della metà, oltre un miliardo. Il problema è che il settore in Cina sta soffrendo una grave crisi di sovraproduzione causata, anche laggiù, da una domanda debole. In particolare è stato lo scoppio della bolla immobiliare ad aver fatto crollare il mercato interno. Di conseguenza Pechino sta inondando il mondo di acciaio a prezzi stracciati. Si prevede che quest’anno le esportazioni di prodotti siderurgici made in China cresceranno del 24 per cento e arriveranno alla cifra mostruosa di 100 milioni di tonnellate, valore record dal 2005, quasi l’equivalente dell’intera produzione europea. Così sul mercato sbarcano partite di acciaio anche a 500 dollari alla tonnellata, contro una quotazione ufficiale che si aggira sui 700 dollari. Di recente ArcelorMittal, l’ex proprietario dell’ex Ilva ha affermato che le esportazioni dal Dragone hanno causato una situazione «insostenibile». Stati Uniti ed Europa accusano Pechino di sussidiare le sue aziende, che non devono sopportare i costi ambientali ed energetici a carico invece dei concorrenti occidentali.

Ma mentre Washington ha applicato disposizioni più severe contro le importazioni low cost, l’Europa ha imposto dazi anti-dumping e misure di salvaguardia considerate insufficienti dai produttori locali. Tanto è vero che le importazioni di acciaio in Europa sono passate dal 17 per cento dei consumi nel 2012 al 27 per cento attuale. «La situazione richiede un’azione urgente a livello della Ue, poiché sia la produzione europea di acciaio che le relative catene del valore della tecnologia pulita sono a rischio» ha avvertito Axel Eggert, direttore generale di Eurofer. L’associazione chiede di rafforzare la protezione del settore per affrontare l’emergenza con dazi più alti. Se la situazione non dovesse migliorare nei prossimi mesi, è il messaggio sottinteso, molti impianti dovranno sospendere la produzione. A questi problemi di dimensione globale si aggiungono quelli italiani. Il nostro Paese è un importante produttore di acciaio, il secondo in Europa con 21 milioni di tonnellate dopo la Germania (35 milioni). Abbiamo un peso così rilevante perché siamo la seconda economia manifatturiera del continente e di conseguenza usiamo tanto metallo. Per questo l’eventuale chiusura di Acciaierie d’Italia (la ex Ilva) rappresenterebbe un grave danno per il Paese. Ma la frenata della domanda si fa sentire anche da noi: nel mese di luglio le acciaierie italiane hanno sfornato 1,7 milioni di tonnellate di acciaio con una flessione del 3,9 per cento sullo stesso mese del 2023, mentre nei primi sette mesi dell’anno la caduta è stata del 5,4 per cento.

A questo danno per i produttori si aggiungono i costi altissimi dell’energia, come dimostrano i dati presentati dal gruppo Arvedi. Il prezzo dell’elettricità, spiegano in Confindustria, è determinato in tutta Europa anzitutto dalla quotazione del gas, ma siccome nel meccanismo di prezzo entra anche quanta elettricità si ottiene dalle rinnovabili (fonti che hanno costi marginali più bassi) e in Italia per produrre elettricità si usa molto più gas che altrove (il 45 per cento contro il 19 della media europea), il risultato è che paghiamo un prezzo più alto rispetto agli altri Stati europei. Una soluzione potrebbe essere quella di svincolare il prezzo dell’elettricità dai costi delle fonti fossili.