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Il mal d’Italia degli italiani a New York: se gli emigrati si chiamano espatriati, un motivo c’è

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di Stella Saccà

Long Island City, New York, ore 22. Anzi, 10 pm. Un gruppo di ragazzi fuma davanti all’ingresso di un pub, unica fonte di illuminazione di una strada tranquilla e silenziosa. Unica, se non si considerano le luci carnevalesche dell’Empire State Building, che si impone alla fine della via. In realtà, è al di là dell’East River, a Manhattan. Ma è così prepotente da apparire ovunque, in qualunque angolo della zona nord di Brooklyn e di Long Island City. Sembra un padre arrabbiato che aspetta il figlio che non ha rispettato l’orario concordato per rientrare a casa. Sembra proprio un uomo a gambe aperte e braccia conserte. Ma uno di quelli in fondo buoni, che si mettono a tacere con un bacio sulla guancia al profumo di Margarita.

I ragazzi davanti al bar sono italiani. C’è chi è appena tornato da Venezia, chi da Milano, chi è ospite di alcuni amici e quindi solo di passaggio, chi non è mai tornato dal programma scambio studentesco del suo liceo. Quelli che vivono a New York si sono trasferiti più o meno tutti dieci anni fa. Ogni tanto si immette nel gruppo qualche americano, e allora i vari accenti del nord, quelli del centro e quelli del sud, convergono tutti in un inglese dovuto. Poi, lentamente e organicamente, si torna all’italiano. E l’americano svanisce dietro la nube di fumo che non accenna a diminuire. Nessuno lo dice, ma sembra evidente che nessuno di loro abbia voglia di parlare inglese. Il loro sangue è probabilmente ancora scolorito da tutti gli spritz accolti durante i mesi estivi. Si parla di pizza al taglio, si interroga il romano del gruppo per sapere quale pizzeria della Capitale preferisce. Si illuminano gli occhi, di tutti, e gli angoli delle labbra si spostano in su per accogliere un sorriso nostalgico.

Aumentano le tematiche e non ci vuole molto prima che tutti confessino di voler tornare a vivere in Italia. Che la carriera e il riconoscimento del merito sono importanti, ma non ha lo stesso peso di un abbraccio dell’amico di sempre e della famiglia. Se gli emigrati si chiamano espatriati, un motivo c’è. Senza patria…

Restano lì, in quella quiete surreale di una serata di settembre ancora molto calda. L’Empire cerca di mettere in soggezione ma ormai le confessioni non si possono fermare e la corrente delle parole è più veloce delle onde del fiume soffiato dal vento forte. Restano fuori anche quando il tabacco è finito, non hanno voglia di perdere ognuno le parole dell’altro per lasciar spazio alle urla dei tifosi di una partita di football americano all’interno del pub.

Ci si lamenta nonostante la consapevolezza della fortuna di provenire da un paese ricco, sicuro, nonostante i tanti difetti. Ci si lamenta con un velo di vergogna per chi vorrebbe tornare a casa ma non può farlo. Venezuelani, colombiani, ecuadoriani, turchi, caraibici, libanesi. Palestinesi. Stessa voglia di tornare alle proprie origini, ma meno probabilità di poterlo fare.

La serata si squaglia, le 22 sono diventate le 23, e la mattina newyorchese non perdona come la mattina romana, ed è molto più severa di quella milanese. Il gruppo si scioglie, prelevato quasi singolarmente dai vari Uber, che li portano via in macchine più scure della notte stessa, e li ributta nella mani della città, come se non fossero mai esistiti.

L'articolo Il mal d’Italia degli italiani a New York: se gli emigrati si chiamano espatriati, un motivo c’è proviene da Il Fatto Quotidiano.