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Сентябрь
2024

La «sindrome giapponese» su famiglia anziani e nascite

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Nel Paese del Sol levante ci sono sempre più anziani, le donne fanno meno figli, mentre debito pubblico e inflazione esplodono. Una parabola discendente della super potenza asiatica che deve far riflettere Europa e Italia alle prese con gli stessi problemi.

Per quasi mezzo secolo, il Giappone è stato un modello per l’Occidente, mentre ora è un avvertimento per ciò che potrebbe accadere in Europa. Economia solida, alto tenore di vita, welfare sociale all’avanguardia, il tutto basato su una cultura del lavoro, caratterizzata da lunghi orari di lavoro e rigidissime gerarchie, che lascia pochissimo spazio all’individuo. Poi quello che era un punto di forza, si è trasformato in una pericolosissima debolezza. Quei «samurai aziendali» così abilmente descritti nel romanzo La fabbrica di Hiroko Oyamada, pronti a dedicarsi con abnegazione al lavoro, pur di contribuire al successo della loro impresa, sono diventati l’emblema di un sistema in cui la vita umana sembra naufragare. Nessuno si aspettava che quel modello si sarebbe inceppato e che da motore si sarebbe trasformato in boomerang. Detto in sintesi: i ritmi di lavoro stressanti sono un ostacolo alla crescita demografica. Il calo del numero di giovani restringe la manodopera disponibile, soprattutto nel manifatturiero, e l’invecchiamento della forza lavoro riduce produttività e capacità di innovazione.

La contrazione della forza lavoro comporta un minor gettito fiscale, meno domanda interna, mentre l’aumento della popolazione anziana taglia il risparmio, fa salire la spesa pubblica per l’assistenza sanitaria e quella per le pensioni, oltre al fabbisogno di personale sanitario. Una parabola discendente che impatta sul debito pubblico più alto al mondo, quasi due volte e mezzo il Pil, al 286 per cento. Circa un terzo della popolazione nipponica ha 65 anni e l’età media è la più alta al mondo (48 anni). Secondo le stime dell’Istituto nazionale di ricerca sulla popolazione e la previdenza sociale, nel 2070 la popolazione nipponica diminuirà di circa il 30 per cento, scendendo a 87 milioni di persone, con quattro individui su dieci di età pari o superiore a 65 anni. Si calcola che fino al 42 per cento delle donne giapponesi nate nel 2005 non avrà mai figli. Tra le nate nel 1970, il 27 per cento è oggi senza prole, un tasso significativamente più alto di quello registrato negli Stati Uniti o in Europa. Il calo delle nascite ha portato anche alla chiusura di tante aziende messe in crisi dall’assenza di un cambio generazionale. Un rapporto governativo del 2019 già metteva in guardia dal rischio, valutando che 1,27 milioni di piccoli imprenditori entro il 2025 supereranno i 70 anni (età massima per il pensionamento ma oltre la quale gli anziani proprietari continuano a svolgere un ruolo di indirizzo) senza avere eredi in grado di proseguire l’attività, spesso ereditata a loro volta.

Questa prospettiva potrebbe cancellare 6,5 milioni di posti di lavoro e incidere sull’economia per l’equivalente di 166 miliardi di dollari l’anno. Considerato che la speranza di vita per gli uomini è di 82 anni, nel 2029 arriverebbero a questo traguardo i baby boomer e questo potrebbe lasciare senza gestione un gran numero di aziende. È dal 1974 che il Paese non registra un tasso di natalità a livello di sostituzione. Tant’è che il premier Fumio Kishida ha definito il problema demografico «la crisi più grave che il Giappone si trova a dover affrontare» e ha annunciato una serie di misure per incentivare le nascite, come più strutture per l’assistenza all’infanzia e aumenti salariali per i lavoratori più giovani. Per questo è stata stanziata una cifra di quasi 24 miliardi di dollari all’anno nei prossimi tre-cinque anni, che raddoppiano la spesa per l’assistenza all’infanzia entro l’inizio del 2030. Uno scenario che ha contribuito alla recessione, a una crisi che iniziata negli anni Ottanta ha accelerato nell’ultimo decennio. Nel quarto trimestre del 2023, il Pil nipponico è sceso per la seconda volta consecutiva (-0,4 per cento dopo il -3,3 per cento nei tre mesi precedenti), deludendo gli economisti che si aspettavano un più 1,1 per cento.

Così il Giappone ha dovuto cedere il posto di terza economia mondiale alla Germania, altra economia in crisi di vocazione, e accontentarsi del quarto. Il segno negativo ha continuato anche nel primo trimestre del 2024 (-0,5 per cento sul trimestre precedente e -2 per cento su anno), la produzione industriale è diminuita dello 0,7 per cento mentre a giugno l’inflazione è salita al 2,6 per cento. Lo scorso novembre, Kishida ha varato un pacchetto di «stimoli» del valore di 17 mila miliardi di yen, più di 105 miliardi di euro, nel tentativo di ridurre la pressione del carovita ma con scarsi risultati. Nell’ultimo anno, lo yen è stata tra le valute con peggiori performance nel mondo, e anche se questo è positivo per gli esportatori giapponesi, rende le importazioni più costose e alimenta l’inflazione che riduce la spesa per consumi delle famiglie. L’arcipelago nipponico vive anche una crisi politica. Il premier Kishida, al minimo dei consensi a causa di una serie di scandali che hanno travolto la sua amministrazione, si è già ritirato dalla corsa alla leadership del partito liberal-democratico. L’unica voce che va bene è il turismo, favorito da un cambio euro-yen favorevole. A luglio il Paese ha accolto oltre 3 milioni di viaggiatori, con un aumento del 42 per cento rispetto a 12 mesi prima e l’Organizzazione nazionale del turismo stima che l’anno si chiuderà con un bilancio di 35 milioni di visitatori stranieri. Per il governo è una manna piovuta dal cielo anche se alcune amministrazioni, per assecondare l’insofferenza della popolazione nelle località di particolare richiamo, hanno introdotto misure di contingentamento dei flussi, come le barriere in un punto panoramico davanti al monte Fuji o il divieto di ingresso nei vicoli privati del noto quartiere delle geishe di Kyoto.

«Il caso Giappone è un indicatore segnaletico, un monito per quello che può succedere in Europa e in Italia. Bassa natalità, bassa domanda interna e rallentamento della crescita sono elementi comuni» spiega Giuliano Noci, prorettore del Politecnico di Milano. «Le misure a favore dell’incremento demografico non riescono a fare molto, hanno effetti nel lungo periodo e poi la popolazione ricomincia a fare figli solo se ci sono prospettive favorevoli. Un altro fattore penalizzante è stata la politica di totale chiusura all’immigrazione regolare, diversamente da come hanno fatto gli Stati Uniti che proprio sui migranti hanno costruito il boom economico».