Moretto da Brescia, il tratto umano della pittura divina
Moretto da Brescia è uno dei primi anticipatori di quel naturalismo che esploderà con Caravaggio. La sua pittura non parla il linguaggio della poesia aulica, come nello stesso periodo fanno la pittura veneta, quella fiorentina, quella romana: la pittura dell’artista parla in «dialetto». Un dialetto colto, che poi è la lingua veneta di terraferma: ma è pur sempre un modo di esprimersi che ha il sapore inconfondibile e caratterizzante di un luogo. Possiamo cogliere questa tendenza di Moretto in due opere che testimoniano due momenti diversi della sua attività: la Pala della Chiesa di San Gregorio nelle Alpi, in provincia di Belluno, e la Pala di Orzinuovi, in provincia di Brescia. Siamo nel 1520, Moretto è nel suo momento germinale, quando viene in Cadore a incontrare idealmente Tiziano, che a Venezia, nel 1518, ha portato a termine l’Assunta dei Frari, per la Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari. E Tiziano è presente in questa prova di Moretto, come è evidente nella posa della Madonna che si volge verso San Valentino per aiutarlo a leggere, o nel gesto del bambino che si sporge per prendere la mela dalla mano di San Gregorio.
Si avverte fortemente l’attrazione del pittore bresciano per i colori veneti, nell’accostamento dei rosa con il blu della veste della Madonna, e nel colore verde del piviale di San Gregorio. Ma sono colori che dall’esaltazione potente di Tiziano, calda, diventano cinerini, come trasportati in una dimensione di malinconia. C’è una sensibilità, direi «morandiana», nell’interpretare la fonte del colore della pittura veneziana, in una dimensione in qualche modo intimidita, mortificata. È la caratteristica di questa pala d’altare, di tradurre la forza di Tiziano in qualcosa di profondamente intimo. La dolcezza, la delicatezza sono la cifra con cui Moretto si accosta alla grande pittura e con cui inizia a raccontare le cose della realtà. Sono gli esordi della carriera di Moretto. Non ci sono ancora, come vedremo nella sua pittura successiva, frutta, oggetti, che indichino una curiosità per il reale. Qui assistiamo a una semplice ma decisiva diminuzione della potenza cromatica di Tiziano per esprimere un’intimità nuova.
Passiamo alla Pala di Orzinuovi, dipinta da Moretto intorno al 1525, è una pala d’altare nella tradizione veneziana della «Sacra Conversazione». L’artista impagina il tutto secondo un criterio prospettico molto avanzato: la scena diventa un cubo in cui il pavimento aggetta, il trono sta al centro come un parallelepipedo e le colonne sono appena accennate per dare la sensazione di un arco, forse un chiostro, comunque un’architettura che apre verso l’esterno. Nello spazio tra le colonne è posta una ghirlanda. Il modello di questa composizione risale a circa 80 anni prima: è il Trittico di San Zeno di Andrea Mantegna, dove compare una struttura di marmo simile a questa, accompagnata da ghirlande che scendono dall’alto e sostengono il panno dietro la Vergine. Sono le ghirlande dei sarcofagi antichi che utilizza Squarcione di Padova, maestro di Mantegna. Questi mostrava ai suoi allievi con gli scavi di antichità da cui emergevano appunto sarcofagi con elementi decorativi a ghirlanda. Il termine tecnico della ghirlanda da cui pende della frutta è «encarpo» e si ritrova in tutti i pittori che hanno lavorato a Padova con Mantegna: Moretto intende dunque rendere omaggio alla grande pittura quattrocentesca, a Mantegna, a Padova, a un classicismo ritrovato di cui c’è ancora memoria.
L’altro elemento di innovazione riguarda la composizione. In quella tradizionale del trittico o polittico, gli elementi di legno o di cornice dividono in tre o cinque parti la pala d’altare. A partire da Antonello, e poi con Bellini, questo spazio si unifica: i santi coesistono nello stesso spazio, non stanno più ciascuno nel proprio scomparto. Riuniti, essi danno così vita alla «Sacra Conversazione», cioè dialogano con la Madonna, ma solo idealmente, poiché è pur sempre una conversazione sacra, quindi il dialogo è interiore. Nella Vergine in trono di Moretto, la Madonna ha il capo chino verso il Bambino. Sulla destra vediamo un frate domenicano con in mano il giglio della purezza e con una colomba sulla spalla: si tratta di San Vincenzo Ferrer, e la colomba è lo Spirito santo, che gli ispira una verità su cui il santo sembra riflettere abbassando il capo. Alla sua sinistra c’è Santa Lucia, che stringe nella mano destra il punteruolo con gli occhi che simboleggiano il suo martirio. La santa ci guarda e con la mano sinistra indica il gruppo sacro, quasi dicesse: «Guardate con me, contemplate con me».
Sia Lucia sia Vincenzo hanno un’aureola trasparente anziché dorata come da tradizione: il senso della realtà del Moretto vuole infatti che, pur essendo santi, in uno spazio sacro, siano soprattutto persone vere. Per questo l’aureola non è d’oro, ma piuttosto un’aura che gira intorno alla testa e crea un effetto luminoso, come una sorta di segnale spirituale. Sull’altro lato del dipinto, abbiamo la risposta all’indicazione della Santa: mentre Lucia guarda noi, e Vincenzo guarda dentro di sé, i due personaggi a sinistra contemplano il gruppo sacro. Il primo è San Domenico, il Santo che difende con il pensiero la fede e dimostra la verità del cattolicesimo. Tiene in mano il giglio della purezza, ma soprattutto rivolge a noi il libro, affinché possiamo entrare nei misteri che spiega. Mentre San Vincenzo anch’egli domenicano, tiene il fiore vicino al cuore, a trasmettere la sua emozione, San Domenico tiene il giglio in maniera distratta. Ecco il «volgare bresciano» - il dialetto, per esprimerci nei termini indicati da Giovanni Testori -, quella pittura di realtà per cui un Santo paludato, con la sua bella veste dalla stoffa pesante, tiene distrattamente il simbolo della sua purezza; lo tiene in mano e non sa dove metterlo, come si fa con qualcosa che ingombra; lo regge con due dita come quando un ambulante ci induce a comprare un fiore e noi non sappiamo cosa farne e lo prendiamo per gentilezza.
Accanto a lui c’è San Giuseppe che, in quanto padre putativo, dunque partecipe «esterno» della Famiglia, alza lo sguardo verso la posizione sopraelevata della Madonna e del Bambino. Ha in mano la verga fiorita; e qui lo vediamo tenerla in maniera piuttosto inerte, come una canna da passeggio, e senza l’inclinazione amorevole che il San Vincenzo dà al giglio. Ancora un particolare, che forse viene dal rapporto con Lorenzo Lotto, innamorato dei fiori in quanto emblemi della caducità umana: la natura morta di rose ai piedi della Madonna. Si tratta di un elemento che non ha alcun rapporto col tema del dipinto, è qualcosa che vale per sé, pura pittura, come un De Pisis. Continuando, nel gradino che viene verso noi, in basso a sinistra si nota una piccola chiesa, come un modellino: è il simbolo della Chiesa protetta dal sapere di San Domenico. Mentre sulla testa di San Vincenzo brilla la fiammella che rappresenta la distinzione data dalla fede, sulla fronte di San Domenico c’è una stella: la stella della ragione, della conoscenza.
Ma c’è un altro elemento, che è la firma di Moretto. Ed è il committente, un sacerdote, che tiene fra le dita incrociate il suo cappello. È in ginocchio, ma non è, come sarebbe stato nel Quattrocento, sottodimensionato rispetto ai santi: loro sono più in alto ma lui è grande come loro, e sta più in basso perché è inginocchiato. L’artista rappresenta così la devota «invadenza» dell’uomo comune in questo eletto consesso di santi e divinità, con il committente che si fa servo inginocchiandosi. Lo rappresenta in un mirabile profilo, un profilo non da medaglia antica ma da uomo reale, con la barba incolta, pochi denti, naso aquilino, orecchie a sventola: il volto di un vecchio, riconoscibile come in una fotografia e, soprattutto, imperfetto. Soltanto un uomo ironico e concreto come Moretto poteva inventare un simile ritratto, con l’orecchio piegato come un tortellino, che dà un bellissimo effetto di verità così come l’ossatura, la magrezza straziata e il collo rugoso. In conclusione, la Pala di Orzinuovi è un’opera forse provinciale, anche dialettale, da riferire a un pittore condizionato da un villaggio come Orzinuovi, un luogo dove prevaleva ancora la cultura quattrocentesca di Mantegna; un’epoca che si ostina a non passare. Lui non la tradisce ma la rende vera, con tutti i santi.