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Сентябрь
2024

I pentiti (e abbandonati) della transizione

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Tornare indietro dalla scelta che porta al cambio di sesso è complesso, non sempre possibile e apre ferite dolorose. Dalla Francia - ritenuta all’avanguardia su questi diritti - al regno unito, agli usa, all’Italia: le storie di chi capisce di aver sbagliato. E troppo spesso non trova aiuto per questo legittimo ripensamento.

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«Non esistono test per distinguere l’una dall’altro», spiegano gli esperti, e «dunque meglio assicurare sostegno medico e psicologico tanto ai bambini quanto ai loro genitori». Dal 2020 hanno cambiato sesso oltre novemila francesi e, secondo le stime, i casi di pentimento sarebbero oltre il 30 per cento (ma i minimalisti giurano che non arrivino allo 0,5: una differenza troppo evidente, qualcuno sta barando). I reietti sono uomini e donne che vivono nell’ombra, inseguiti dal senso di colpa. E impauriti di ammettere il fallimento che ha sconvolto la loro esistenza. Il quotidiano Le Figaro è riuscito a raccoglierne storie e sentimenti. Rappresentano la détransition di carne e sangue che vive, ama e si dispera. Come Sophie, 14 anni: ostacolata dal suo medico curante nel desiderio di diventare un maschio, e dopo aver minacciato più volte il suicidio, trova uno specialista compiacente che subito le prescrive la cura ormonale. La regazza si fa operare in Thailandia e, dopo sei mesi, si accorge che nei panni di Soan, il suo nuovo alter ego, non sta più bene. Cade in depressione, diventa anoressica. È un’androgina che non riesce più a guardarsi allo specchio per le cicatrici che le ha lasciato l’asportazione del seno.

Jade ha un anno in più, e si sente uomo. Si sottopone a una falloplastica per la creazione di un organo genitale maschile. Eppure, la vita tanto sognata si rivela un incubo. Vorrebbe rivedersi nella dolce adolescente che tutti conoscevano. Non può. Le è consentito solo sottoporsi a una nuova operazione per l’eliminazione del pene. Oggi dice: «Mi pento e mi pentirò sempre di quel che ho fatto. Vorrei solo ricominciare a vivere». Un altro giovane, invece, ha seguito il percorso opposto con un intervento di vaginoplastica. Solo che ha poi incontrato una ragazza e si è innamorato. Racconta: «Sono un uomo e non voglio essere altro». Dopo il primo intervento, sempre in Thailandia per il ripristino dell’apparato sessuale, ha iniziato il lungo e faticoso percorso di riconversione. Non prima però di aver provato a togliersi la vita fiaccato dalla disperazione e dalle delusioni. Julie, a un certo punto, è diventata Joseph. Solo che Joseph è altro da lei. Non è lei. Vorrebbe allora tornare sui suoi passi ma ormai il processo di trasformazione è irreversibile. Julie si trova bloccata in un corpo che non è più suo, e annega in uno stato di isolamento. Accusa lo psichiatra di averle prescritto gli ormoni già al primo incontro, senza alcun approfondimento dietro il suo malessere (che si è rivelato, infatti, temporaneo). Vorrebbe riprendere ad amare come una donna ma, ormai, vive in un limbo Anche Lyo ritiene che i medici l’abbiano abbandonata. Aveva semplicemente paura della pubertà, ma non ha saputo esprimerlo. Così l’hanno trasformata in un maschio.

Lola oggi ammette di aver imboccato una strada senza via d’uscita: «Nessuno ci ha avvisato […] siamo rimasti bloccati in una dimensione tra due sessi. E senza più identità». Chloé amava i manga e lo street wear, ed era ribelle quel po’ che l’età impone. La comunità Lgbq+, a cui si era avvicinata per comunanza d’interessi e per curiosità, l’ha sottratta all’influenza della famiglia e degli amici e, con un lungo lavoro di circonvenzione, l’ha convinta a cambiare sesso e a odiare i suoi stessi genitori accusandoli (falsamente) di essere transfobici. Adesso Chloé vorrebbe una macchina del tempo per rimediare all’errore: «Eravamo una setta [...]. Chiunque non fosse stato d’accordo con noi, doveva essere escluso e criminalizzato». Lei ci ha creduto e si è fidata, ma si è persa. Ci volevano le lacrime di tutti questi ragazzi per convincere la Francia a esercitare più controllo. Oltre la Manica, in Inghilterra, non sono stati così sprovveduti: lo studio della commissione Cass ha stabilito che le «incongruenze di genere non persistono nell’adolescenza» e che sono necessari fin da subito «sostegno psicologico» e un’alta «vigilanza» per pazienti e familiari. Perché transizione biologica e transizione sociale sono profondamente differenti: alla seconda si può sempre rimediare. Alla prima, no. Il dossier ha messo in luce le criticità del Servizio sanitario nazionale sulla disforia di genere: liste d’attesa fuori controllo, processi amministrativi caotici e sicurezza dei pazienti quasi azzerata. Inoltre, alcune cliniche non correggeono le credenze irrealistiche (il cosiddetto «pensiero magico») su ciò che sarà possibile ottenere con la terapia farmacologica.

È stato accertato che i giovani ricevono le prescrizioni ormonali già alla seconda visita nonostante le loro condizioni spesso nascondano traumi, abusi, disturbi mentali e autismo. Una scorciatoia che non aiuta, ma distrugge. Come accaduto ad Ellie. Lei si era sempre vista come un «maschiaccio» e prima di entrare in contatto con una comunità Lgbq+ inglese non si era mai posta il problema di avere un «sesso sbagliato». Sono stati i suoi nuovi «amici» a metterle in testa che lei «era un uovo che stava per schiudersi e rivelare la sua vera identità». A 15 anni ha fatto coming out. Dopo un anno in terapia («incontri inutili di 10 minuti», ha raccontato, «in cui ero solo io a parlare e la psichiatra a prendere qualche appunto») ha iniziato il percorso sociale di transizione. A 18 anni ha assunto i primi ormoni. Si fa togliere il seno ma l’operazione va male e, giovanissima, si ritrova con una mammella «macellata, ammaccata e sfregiata» che la costringe a sottoporsi ad altri tre interventi. Uno strazio. Dopo sei mesi, i primi dubbi. Il crollo arriva a una festa indossando una parrucca dai capelli lunghi. È la stessa acconciatura che portava da bambina. Corre in bagno con le lacrime agli occhi e, nello specchio, nota «uno sconosciuto. Non ero più io». Dopo sei mesi, prova a uccidersi. Alla fine, decide di confidarsi col suo compagno. Vuole tornare a essere una ragazza. Ecco le sue parole: «Non mi era permesso di farmi del male da sola, però potevo consentire che fossero gli altri a farlo al posto mio. Perfetto. Eppure non permettiamo ai ragazzi di votare o di comprare sigarette e alcolici. Se tua figlia di 14 anni ti supplicasse di aumentare il seno le diresti di no. Se è così, perché mai le lasceresti tagliarselo via?». Helena è invece una detransitioner americana nata donna ma diventata uomo. Durante un turno lavorativo di notte, si sente soffocare. Si toglie il binder, la maglietta a compressione che le schiaccia il seno, e decide di rinunciare al testosterone. Come per incanto, scompaiono ansia e disagio. La svolta arriva con un video pubblicato sui social dalla compagna. Helena ricorda i comodi abiti femminili, le passeggiate in famiglia, i litigi coi genitori. Ha nostalgia del suo passato.

Com’è accaduto a un’altra connazionale, Alia: a 18 anni si dichiara uomo e inizia la terapia medica. A 20 anni - facconta il sito Feminist legal - si fa asportare il seno. Poi arrivano il pentimento e il disperato bisogno di ritornare a identificarsi come donna. Ora spiega: «Pensavo che essere un uomo fosse la cosa migliore. Per un po’, è andata bene. Poi, tutto mi è crollato dosso e ho capito non solo che avevo sbagliato ma anche che quella intrapreso non era assolutamente la strada giusta». sulla detransizione. I media Usa parlano di «varie sfide legali affrontate dai detransitioner, come problemi sul consenso informato, criticità sanitarie sistemiche e la sperimentale di molti trattamenti». I legali puntano a difendere la «vulnerabilità dei clienti, la mancanza di cure complete che affrontino problemi di salute mentale sottostanti e la necessità di pratiche mediche caute». E in Italia? Molti casi sono stati affrontati dall’associazione GenerAzioneD che fornisce assistenza e supporto alle famiglie e ai giovanissimi. Come Marta e Gaia, che vivono le stesse crisi emotive dopo l’approccio affermativo con cui hanno deciso di trasformarsi in un «lui». M