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Gli egosti di squadra secondo Fefè De Giorgi, allo Sport Business Forum 

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Ferdinando De Giorgi, allenatore nazionale italiana pallavolo maschile, parteciperà a Sport Business Forum in due occasioni. la prima sabato 14 settembre al teatro Buzzati di Belluno (ore 11.30) dove presenterà il suo libro «Egoisti di squadra» in cui verranno esplorate le dinamiche complesse e affascinanti del lavoro di squadra nel mondo dello sport, e in particolar modo della pallavolo. Qui il link per iscriversi gratuitamente. Preenta Massimo Guerretta, giornalista NEM della tribuna di Treviso.

Il secondo appuntamento domenica 15 sempre a teatro alle ore 15 per la cerimonia di premiazione del premio «Protagonisti dello sport», dove Fefè figura tra i finalisti con il libro di cui sopra.

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Coach Ferdinando De Giorgi, per tutti Fefè, “egoisti di squadra” possiamo esserlo un po’ tutti, non serve giocare a volley, vero?

«Certamente. Il mio libro prende spunto dalla pallavolo, ma può esser calato nella realtà di tutti i giorni. Ci sono racconti della mia esperienza in campo per introdurre i capitoli, ma poi si tratta di un percorso di crescita, pedagogico, che può essere utilizzato ovunque. L’ho usato nel corso della carriera da giocatore e da allenatore. Il tema è la gestione delle persone, per stimolare un po’ chi vuole affrontare un cambiamento. Ci sono parecchie domande… Ecco, non lo leggerei sotto l’ombrellone, è un viaggio introspettivo, incuriosito dal percorso con la Nazionale con questi ragazzi giovani alla conquista del mondo».

Che hanno vinto con lei alla guida l’Europeo del 2021 e il Mondiale del 2022. Scriverlo le è servito per cristallizzare quei successi?

«C’è la consulenza del pedagogista Giuliano Bergamaschi. È una figura che ho praticamente sempre avuto nelle mie squadre, mi interessa l’apprendimento della crescita. E scriverlo è servito anche me, quando metti su carta un po’ di pensieri è chiaro che compi un viaggio, rendi fruibili e più riflessivo qualcosa di te. Faccio l’allenatore, capisco l’opportunità che mi è stata data».

Perché “egoisti di squadra”?

«Il titolo è intrigante, è stato scelto un ossimoro che attrae. Un principio che può andar bene in una famiglia, in un’azienda, nella redazione di un giornale. Il talento al servizio degli altri. Meccanismi da oliare: l’egoismo in sé non è proprio un aspetto negativo, anzi, ci deve essere, ma poi è necessario che le proprie qualità vengano messe a disposizione della collettività. Ciò che rovina l’atleta in rapporto agli altri – ma anche l’uomo nella società - è l’egocentrismo, se siamo all’interno di un’organizzazione che dà valori. Il problema sorge quando non si condividono. Se metti il rispetto, la disponibilità, le conoscenze poi si diventa gruppo. È una scelta».

Ci sarà qualcuno che non si è messo a disposizione?

«I grandi campioni che lasciano il segno lo fanno sia dal punto di vista tecnico che da quello della disponibilità all’interno di un Gruppo, con la “g” maiuscola. Un giocatore simbolo? Beh, ne ho viste di tutti i colori, anche chi poi cambiava, in meglio o in peggio. Il problema è che quando cambiano si dimenticano di avvertirti... Scopri delle cose man mano che serve per aggiustare determinate situazioni. Per creare il senso di appartenenza in una squadra molto forte serve il lavoro giornaliero».

Lei avrebbe fatto lo stesso percorso di crescita personale senza il volley?

«Lo sport mi ha aiutato molto, ha una velocità tale in questi meccanismi che non si può paragonare ad altre forme educative. Devi lavorare su te stesso, con gli altri, e in mezzo ci sono sacrifici, vittorie, sconfitte. È un viatico impressionante. Dal mio punto di vista l’attitudine era quella, sono sempre stato molto curioso. Poi il ruolo di palleggiatore esalta ancora di più queste caratteristiche. Che vuoi, è un ruolo bello pieno».

Come gli occhi degli italiani nel vedere il vostro quarto di finale di Parigi con il Giappone, quello 0-2 diventato gioia dopo 4 match point annullati… Sa che si parla ancora di quella partita, più che delle due successive?

«È stata una bella sofferenza, una partita di quelle che si ricorderanno per come è stato lo sviluppo, per i contenuti, l’emotività, la risalita. Loro difendevano alla grande, nell’ultimo anno e mezzo hanno fatto un bel salto di qualità, sono una squadra davvero difficile da affrontare e il libero sembrava un videogioco. Attenzione, nel ranking è da un po’ che sono nelle prime quattro al mondo. Sono quelle partite che non vedi facilmente, un match così rimane nella mente. Va bene, mi parlano molto di questa partita. La sofferenza in tv, rivista dopo. Energie perse? Un po’, ma poi abbiamo giocato dopo due giorni, quindi il tempo per recuperare c’era. La verità è che poi abbiamo trovato la squadra più in forma in quel momento, e infatti la Francia ha vinto semifinale e finale per 3-0, facendo sembrare noi e la Polonia squadre modeste. E garantisco che non lo siamo. Vero, qualcosa nell’Italia non ha funzionato, ma se ci penso a mente fredda ho più amarezza per il mancato bronzo con gli Stati Uniti».

Julio Velasco sottolinea che l’Italia femminile è stato la più brava in quel torneo, non è necessariamente la miglior squadra del mondo. Concorda?

«Nel femminile non conosco il livello in un dettaglio così approfondito, ma devo dire che nel maschile c’è grande equilibrio: tutte le prime otto sono molto forti. L’ho detto agli Europei, e pure dopo il Mondiale: noi siamo stati i più bravi in quel momento. La Francia non è la più forte in assoluto, è stata la più brava qualche settimane fa. La verità è che in questa fase storica non c’è una squadra nettamente superiore. Bisogna accettare che ogni torneo è di difficile pronostico».

Perché in Italia c’è quest’ossessione per l’oro olimpico, nonostante la messe di Europei e Mondiali?

«Beh, ora che l’ha Federazione l’ha vinto speriamo che passi… C’è grande entusiasmo per la pallavolo, siamo il secondo sport d’Italia per tesserati, e il 60-65% sono donne. Ci sono ancora grandissimi margini di sviluppo».

Un po’ come quando la Generazione di Fenomeni aveva iniziato a vincere? Ci saranno ancora i mecenati?

«C’è da dire che i Benetton erano partiti prima, poi è arrivato Berlusconi, Gardini a Ravenna, Panini a Parma… Negli anni ’90 c’è stato il salto di qualità, di conoscenza, di appassionati. Poi c’è la fase di transizione, di gestione, la fine è poi arrivato l’equilibrio. Mi ricordo che uscivamo per giocare in World League e non si riusciva ad arrivare al pullman da quanti tifosi ci aspettavano. Due anni prima ci impiegavamo due minuti, poi quaranta».

In quegli anni lei è passato per Padova. Che ricordi ha di quell’esperienza?

«In Veneto ho vissuto due anni spettacolari, con il Charro Padova. Che maglietta strepitosa, con le stellette. E poi una squadra interessante, con Silvano Prandi allenatore, tanti giovani e qualche veterano al posto giusto. Al San Lazzaro c’era il pienone. Certo, la scomparsa della Sisley è stato un dispiacere, si tratta di una piazza storica, con un palmarès importante, ma resta il vivaio che propone giocatori interessanti. E, certo, il femminile con la salita di Talmassons e una certa Conegliano che è da un po’ che vince qualcosa e ha l’aria di non essersi stancata».