Venezia 2024, fumata bianca: ad oggi il Leone d’Oro del Festival è The Brutalist con Adrien Brody
Mentre cerchiamo di capire se è più immenso Adrien Brody o il film che interpreta, possiamo annunciare che a Venezia c’è la fumata bianca: The brutalist di Brady Corbet è, ad oggi, il Leone d’Oro del Festival 2024 (e Brody l’ancor più probabile Coppa Volpi come miglior attore). Non c’è niente da fare. Prima o poi Corbet e sua moglie Mona Fastvold (che co-scrive e co-produce) la grande opera, allo stesso tempo spettacolare e sperimentale, dovevano azzeccarla. The Brutalist, estenuante maratona da tre ore e 35 in sala, narra le vicende in oltre trent’anni di vita di Laszlo Toth: architetto ebreo ungherese scampato a Buchenwald (ma i campi di concentramento non si vedono); sbarcato fortunosamente negli Stati Uniti a Long Island nel 1947; prima aiutato dal cugino piccolo imprenditore di mobili; cacciato e finito in un dormitorio; successivamente apprezzato per le sue creazioni da un ricchissimo signore bianco della Pennsylvania, mister Van Buren (Guy Pearce), e da lui foraggiato verso la costruzione di un’enorme edificio, blocco unico in marmo che svetterà sulla collina di casa Van Buren tra cappella per pregare, biblioteca, palestra e auditorium.
L’epica che si respira in The brutalist è qualcosa di solennemente travolgente ed espressivamente incantatrice. Girato in Vistavision (formato ideato dalla Paramount negli anni cinquanta), l’opera di Corbet è un magma volitivo, una rutilante sinfonia impastata incessantemente di molte ombre e poche luci, di sferraglianti suoni e trincianti parole. Come se il disegno e la pratica trascendente dell’architettura (il brutalismo fu una corrente architettonica degli anni cinquanta caratterizzata da forme geometriche angolari, monocromatiche e grezze), la sfida furiosa e impossibile dell’umano dentro e attraverso la natura dello spazio naturale si sovrapponesse di continuo al significato creativo proteso verso i limiti produttivi del cinema che si fa, sequenza dopo sequenza (pensiamo al lavoro architettonico incalcolabile della scenografa Judy Becker).
The Brutalist è anche epopea cupa, triste del singolo miserabile migrante europeo strattonato e raffazzonato, dignitoso e non servile, accolto educatamente ma comunque bistrattato dal nobile sangue wasp americano capitalista. Una frattura socio-economica che tiene continuamente in tensione lo spettatore, che si compone gradualmente sottopelle ad ogni sguardo inconciliabile tra i ricchi Van Buren e i poveri Laszlo (c’è anche la moglie di Toth, sulla sedia a rotelle, che riesce a espatriare dall’Austria grazie all’interessamento di un ricco avvocato). Ma con Corbet non c’è mai da rimanere quieti. Perché la turbolenta linearità narrativa che lo caratterizza dai tempi di L’infanzia di un leader, e che qui rimane tale almeno fino all’intervallo (un pannello/frammento di film fisso sullo schermo con un countdown di 15 minuti), successivamente si increspa, si attorciglia in un blocco letteralmente astratto, di fuga dentro la materia (Laszlo e Van Buren acquistano il marmo tra i tunnel delle cave di Carrara) in modo che l’inafferrabilità stilistico-creativa del nostro non trovi mai rassicuranti o convenzionali requie (aspetto che in Italia provano ad attuare i fratelli D’Innocenzo). Insomma il film c’è tutto. Qualche sbandamento certo (il finalino vent’anni dopo proprio no), ma il sapore dell’opera maledetta e imponente si gusta con estremo piacere.
Brody, un film di pregio ogni dieci anni, non rifà affatto nulla di simile al Pianista di Polanski. Il suo Laszlo di The Brutalist, parte recitata per metà in ungherese, e quando è recitata in inglese con un accento ungherese incredibile, sprigiona una nervosa, fragile e dolente dolcezza che in alcuni momenti lascia letteralmente senza fiato. Ricordiamolo ancora una volta: Corbet è uno dei due sadici torturatori nel remake di Funny Games diretto sempre da Michael Haneke.
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