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Сентябрь
2024

Ankara come cavallo di Troia per i prodotti «made in China»

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La Turchia usa il suo status di adesione «parziale» all’Unione europea per tenersi, commercialmente, le mani libere. Ecco che, per esempio, fa accordi con le case automobilistiche cinesi.

In Occidente tale sviluppo non può fare piacere ai più: lo Sco è un’alleanza politica, economica e di sicurezza fondata nel 2001 da Cina e Russia, allargatasi successivamente a Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, India, Pakistan, Iran e Bielorussia. Il suo scopo dichiarato è quello di rafforzare la cooperazione e la fiducia tra Stati membri, mantenere la sicurezza e la stabilità regionale, combattere il terrorismo e l’estremismo e promuovere lo sviluppo economico. Non è un’organizzazione militare, quindi non è un concorrente diretto della Nato, ma si ritiene comunque che legittimi norme illiberali e crei eccezioni rispetto alle norme internazionali altrimenti applicabili, fornendo una sorta di rifugio per nazioni che desiderano evitare il controllo delle organizzazioni dominate dalle potenze occidentali.

La Turchia ha storici legami con la Russia, di cui ci si rende conto anche oggi a occhio nudo visitando le località turistiche del Paese, prese letteralmente d’assalto da ospiti russi. Negli ultimi tempi, tuttavia, sono soprattutto i rapporti con la Cina a essersi fatti più intensi. Il commercio bilaterale è molto aumentato negli ultimi cinque anni e le visite ufficiali si sono infittite. Solo quest’anno si sono recati a Pechino i ministri turchi degli affari esteri, dell’energia e delle risorse naturali, dell’industria e della tecnologia. L’interesse turco per il Dragone è evidente: Ankara necessita di investimenti in settori-chiave per aumentare la sua sicurezza energetica e lo sviluppo tecnologico. Ha anche bisogno di capitali stranieri per domare l’inflazione (che supera il 60 per cento), rafforzare la propria valuta e finanziare la ricostruzione in corso dopo il devastante terremoto dello scorso anno. Inoltre la leadership del Paese sa che la Cina deve a sua volta affrontare alcuni dei propri problemi economici, che possono essere attenuati con nuove rotte commerciali e mercati.

A tenere banco, da qualche tempo a questa parte, è l’accordo con il produttore automobilistico Byd per la costruzione di uno stabilimento nella provincia turca di Manisa. L’intesa è arrivata dopo una serie di misure della Commissione Ue per ridurre le importazioni di auto elettriche cinesi in Europa. Dopo l’intervento di Bruxelles, Ankara ha imposto ulteriori dazi (40 per cento) sulle importazioni di veicoli dal Paese asiatico, salvo esentare le aziende che investono in Turchia. Lo stratagemma è stato pensato per soddisfare le esigenze di Byd, ma potrebbe attirare altri marchi del settore. L’aspetto principale di cui tenere conto è che la Turchia e l’Unione europea hanno un’unione doganale, sicché tutto ciò che viene prodotto nel Paese è esente da tasse quando viene venduto nel Vecchio continente. Inoltre, le fabbriche che si insediano in Turchia non sono tenute ad applicare le norme comunitarie in materia di lavoro o di organizzazione. Finché i prodotti finali soddisfano gli standard dei consumatori, possono essere venduti sul mercato europeo. Con una notevole riduzione dei costi di realizzazione.

La Ue si è di recente dotata di un regolamento ad hoc, il Foreign subsidies regulation (Fsr). Si tratta di uno strumento che serve a neutralizzare i sussidi di vario tipo di cui beneficiano le imprese di Pechino: aiuti, garanzie senza limiti, denaro gratis o poco ci manca. Non è ancora chiaro, con i cinesi che si installano appena fuori dai confini Ue e sfruttano gli accordi doganali di Ankara con quest’ultima, come funzionerà concretamente lo Fsr. La partita si preannuncia come minimo intensa, e Bruxelles non intende certo consentire ad Ankara e a Erdogan di diventare un cavallo di Troia dei produttori cinesi.