Il podere che diventò ristorante: la Nogherazza ha compiuto 30 anni
Il ristorante Nogherazza ha tagliato il traguardo dei trent’anni. Nato dall’idea di Andrea Miari Fulcis, è ora gestito dalla società composta da tre giovani, bellunesi di adozione, che l’hanno preso in mano nel 2010: Daniele Meloni, metà sardo e metà bellunese, Giovanni Grugnetti, siciliano, e Luigi Minacori, anche lui siciliano. I primi due sono cuochi, il terzo si occupa della sala.
Partiti come dipendenti di Miari sono diventati gestori quando il proprietario ha deciso di lasciare, impegnato in altre attività (in particolare l’azienda agricola a Modolo e una tenuta in Umbria). Ma Andrea Miari è comunque molto presente: tiene curati i giardini e i prati intorno, ha investito molti fondi per una serie di ristrutturazioni e adeguamenti dell’antico edificio, ha realizzato il parco giochi e curato la nascita e lo sviluppo del campo pratica di golf.
«Noi tre», racconta Luigi Minacori, «eravamo amici ancora prima di cominciare a lavorare qui. Daniele e io abbiamo frequentato insieme l’alberghiero di Longarone. Lui è stato il primo a cominciare a lavorare alla Nogherazza, a gennaio del 2004 come cuoco. A ottobre sono arrivato io, in sala. Prima avevamo fatto le stagioni, al mare e in Trentino. Nel 2007 è arrivato Giovanni, un altro nostro amico, anche lui cuoco. Ed è Giovanni che si occupa del ristorante “Marta d’Oro” che abbiamo preso in gestione tre anni e mezzo fa».
Gestione assunta dopo il Covid, una vera e propria scommessa, che «va abbastanza bene», come commenta Minacori. «Un ristorante che ha bisogno di essere rilanciato dopo vari cambi di gestione e chiusure». E dalle recensioni sui social, una scommessa che si sta vincendo.
Ma torniamo alla Nogherazza e alla sua nascita. Qui interviene Andrea Miari Fulcis, perché è davvero la sua creatura, su cui ha puntato e lavorato per quasi vent’anni, tra progettazione, ristrutturazione e gestione e su cui continua a investire. «Siamo quattro fratelli», racconta Miari, «allora mio padre era ancora vivo. Mio fratello gestiva l’azienda agricola e io volevo fare qualcosa per conto mio. La Nogherazza è un podere che mia madre aveva acquistato dagli zii, con una casa colonica allora non più abitata. D’accordo con la famiglia ho iniziato una grande ristrutturazione: qui non arrivava l’acquedotto, non c’erano le fognature, non c’era nulla. Sicuramente se l’avessi costruita ex novo, avrei speso molto meno, ma si sarebbe perso tutto lo charme».
E lo charme c’è tutto, nel soffitto con le travi originali, nella pietra attorno al caminetto e sui davanzali, con la terrazza coperta esterna e la grande sala per meeting del piano superiore. Dove c’è il ristorante c’era un tempo la stalla, al piano superiore il fienile, nella casetta a fianco (ora locanda con sei camere, gestita da altri) vivevano i mezzadri che si occupavano del podere. «La costruzione è dei primi del Novecento, ho mantenuto l’originale, ho fatto solo delle piccole modifiche», aggiunge Miari.
Arrivare ad aprire però non è stato facile: «Un anno per ristrutturare e uno per poter aprire: ho dovuto aspettare a lungo i comodi del Comune. Alla fine mi sono presentato negli uffici con un avvocato, minacciando il ricorso alla procura per i danni che mi stavano provocando, il giorno dopo avevo l’agibilità».
Per tre anni la Nogherazza è stata un agriturismo, «poi mi hanno fatto chiudere dicendo che non rispettavo più i criteri per un agriturismo: e pensare che siamo la seconda azienda agricola più grande del Bellunese, con 400 vitelli in stalla, e poi olio e vino».
Da agriturismo a ristorante, nel giro di pochi mesi. «All’inizio mi davano una settimana di vita, poi un mese. Dopo un anno e mezzo dall’apertura dell’agriturismo, c’era una lista di attesa di sei mesi per poter prenotare il sabato e la domenica: è stata veramente una grande soddisfazione. Siamo rimasti chiusi tre mesi per il cambio di destinazione e abbiamo aperto il ristorante più forti di prima, mantenendo la qualità dei prodotti, che sono sempre nostri».
Nel 2010 la cessione dell’attività: «Il motivo? L’anno dopo mi sarei sposato», scherza Miari, «ma soprattutto avevo altre attività da seguire. L’azienda agricola è passata da 60 ettari a 300 ettari, tutto il giro di Modolo è nella proprietà: tengo il percorso curato e ben tenuto, aperto a tutti, ma purtroppo devo dire che c’è molta inciviltà. Ci sono proprietari di cani che raccolgono gli escrementi e buttano i sacchettini nei corsi d’acqua. E poi c’è la tenuta in Umbria dove sto creando una struttura simile a questa, a dicembre ho aperto il ristorante che sta andando molto bene».
Miari continua ad investire sulla Nogherazza: «L’anno scorso abbiamo rifatto i tetti, il salone dei meeting, i bagni, rifatti anche nella locanda, curo i prati e i giardini e durante il Covid ho dato una mano ai gestori».
«Dopo il Covid è cambiato tutto», spiega Minacori, «anche se il turismo è tornato alla grande, a causa delle alte temperature in pianura. Soffriamo come tutti del problema del personale: tra persone a chiamata e dipendenti fissi siamo in diciotto. Pochissimi stagionali sono studenti, tra le persone a chiamata la maggior parte hanno già un lavoro e integrano lo stipendio con le ore che fanno qui da noi. E si fa fatica a prendere dei minorenni, perché le regole adesso sono complicate da seguire». Come in tutto il settore turistico e della ristorazione, si lavora il sabato e la domenica e questo piace poco ai giovani. «La loro domanda più frequente riguarda il tempo libero, più che lo stipendio».
«Negli anni che ho passato qui, ho costruito tanti bei ricordi», conclude Miari, «c’è gente che torna a trovarci, ricordando i momenti di festa, gli anniversari, i matrimoni. Tra gli ospiti alla Locanda abbiamo avuto persone da tutto il mondo. Ricordo un dirigente del Pentagono che stava qui per settimane e veniva a studiare le missioni alleate durante la Seconda guerra mondiale. Si guardava intorno e mi diceva: ma voi vi rendete conto di quello che avete? Avete le Dolomiti, e le avete solo voi. A dieci minuti da qui c’è un lago, in un’ora sei in un aeroporto internazionale, al mare, a Venezia. È vero, ha ragione lui, non ci rendiamo conto dei tesori da cui siamo circondati».