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Август
2024

Lorenzo, l’ultimo pastore errante della Lessinia

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Il Moro è agitato, corre avanti e indietro, ha annusato qualcosa nell’aria: lupi in arrivo o forse turisti di passaggio che, incuriositi, si avvicinano al gregge. «Dai, vieni qui», lo richiama all’ordine Lorenzo Erbisti, 56 anni il prossimo 26 novembre. Il Moro abbaia, ma ubbidisce all’invito del padrone. È uno splendido maremmano, uno dei dieci che aiutano il pastore a vegliare sulle 500 pecore che compongono il gregge. Sono pecore Brogna, una razza autoctona della montagna veronese sopravvissuta all’estinzione.

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Erbisti, ultimo pastore errante della Lessinia («Eh sì», confessa, «ci ha provato qualche baldo giovane, ma la vita qui è tutt’altro che facile») lancia un fischio e il Moro si acquieta. Nei pascoli attorno alla malga Costeggioli di Sotto, nell’Alta Lessinia veronese, poco distante dai confini con la provincia di Trento, torna il silenzio. Il caldo di agosto si è arrampicato fin quassù, ha intiepidito l’aria lasciando però gustare il fresco dei 1600 metri di altezza.

Qui da maggio – giugno, sciolta l’ultima neve, e fino a quando non torna a farsi strada il generale inverno – «in questi anni sempre più tardi» – vive Erbisti in compagnia delle sue pecore e dei suoi cani. Negli altri mesi dell’anno scende a valle, a Roverè, dove con i fratelli Giuseppe e Paolo gestisce l’azienda agricola avviata dal padre Giovanni. Il suo camper è parcheggiato vicino alla malga.

«Il proprietario», dice il pastore, «mi affitta i pascoli, ma preferisce tenersi la malga, libero di salirci per qualche festa con gli amici». Parla schietto, lasciando scivolare qualche parola in un dialetto genuino. Fisico asciutto, barba più bianca che brizzolata, il volto segnato dal sole e dalle intemperie, allunga lo sguardo verso il gregge. Oggi lavora con il trattore: c’è da tagliare il fieno.

Com’è diventato pastore?

«Dopo la terza media, ho deciso che la scuola non faceva per me. Sono il più piccolo di cinque fratelli e una sorella e ho deciso di affiancare mio padre nella sua attività di allevamento. I primi anni non facevo pascolo, lavoravo nella stalla con le vacche rendene, una razza soppiantata qui in zona dalle frisone, campionesse nella produzione di latte anche se di qualità inferiore. Una ventina di anni fa ho scelto di fare il pastore errante, prima in Val Fraselle, sopra Giazza, e poi qua in giro. Si sta soli con gli animali. Ho un collaboratore che mi raggiunge qualche giorno, ma per la maggior del tempo faccio tutto da me. È una vita faticosa e, per certi versi, stressante. Non ci si riposa mai».

Colpa dei lupi?

«Per molti versi sì. Sono tantissimi, qui nel Parco naturale della Lessinia sono proliferati in maniera esponenziale, come conigli. Non hanno trovato antagonisti naturali e ora sono un problema. Le predazioni sono quotidiane. Ormai scendono anche in strada. È fin troppo facile dire: “Io sto con i lupi”. Bisognerebbe provare a vivere qui, assistere agli assalti continui. Se ho paura dei lupi? No, io abito qui. È che vivo in uno stato di costante allerta. Di notte mi svegliano i cani: segnalano l’avvicinarsi dei lupi al gregge. Mi alzo, esco, faccio un giro di ronda, controllo che le pecore siano all’interno del recinto. E spero sempre di respingere l’assalto. A volte capita di arrivare tardi e che i lupi abbiamo già sbranato qualche animale. È una guerra continua. Ormai si avvicinano alla città».

C’è una soluzione a questa emergenza?

«Quelli del Parco sparano con i cannoni per spaventarli oppure diffondono suoni tipo rumori di gente che parla o il vociare delle sagre, usano fasci di luce per impaurirli. A volte (sorride, ndr) quassù, in mezzo alle montagne, pare di essere in discoteca. Ma i lupi dopo un po’ si abituano e tornano a fare i lupi. Anche di giorno. Basta un po’ di nebbia e quando dirada al posto della tua pecora puoi trovare un mucchio di ossa e lana. Gli esperti hanno un bel dire che i lupi hanno nel dna la paura dell’uomo. Non è vero. L’unica soluzione è abbatterli».

Esiste qualche forma di ristoro per voi pastori?

«Sulla carta, ma devi dimostrare che il capo è stato ucciso da un lupo. E non è sempre facile, tanto meno quando, appunto, non restano che ossa e lana».

Cambierebbe lavoro?

«Sinceramente? Non lo so. Ogni lavoro ha pro e contro. Il mio è fatto di fatica e stress (fumo due pacchetti di sigarette al giorno), ma anche di gioie come la nascita di un agnellino. Anche se talvolta i parti da seguire arrivano a 200 al mese e tu lavori peggio di una levatrice».

Questa è l’estate del turismo di massa, anche sui monti. Come va dalle sue parti?

«È un bordello. I sentieri in questa zona sono facili. Le prime avvisaglie di questa invasione si erano avute prima della pandemia: i turisti avevano iniziato a salire sempre più numerosi. Poi dopo il Covid è stato un vero assalto. Sul sentiero che corre dietro alla malga passano anche trecento escursionisti al giorno a piedi con scarpe leggere o con le bici elettriche. Spesso si tirano dietro cani di città costretti, loro malgrado, ad affrontare salite e sentieri. Se all’improvviso sale il maltempo, si trovano impreparati. Al massimo tirano fuori dallo zainetto uno spolverino. La montagna non è un parco giochi».