Lo ius scholae è una questione di buon senso
Trent’anni di inettitudine. Eravamo nel 1992, in pieni sussulti terminali della prima Repubblica, quando veniva varata la legge sull’acquisizione della cittadinanza italiana per gli immigrati.
Tre decenni dopo, una politica inconcludente continua a blaterare su uno dei temi più strategici del Paese, litigando ora sullo “ius scholae”, senza approdare a uno straccio di scelta; soprattutto, senza accorgersi che in strada, sotto le finestre del Palazzo, è tutto un altro mondo.
La legge del 1992 rispondeva a una logica difensiva, in un’Italia dove l’immigrazione era un fenomeno allo stato nascente e circoscritto nei numeri. Da allora si è verificata una crescita esponenziale, al punto da costringere a rovesciare un antico detto popolare: ieri «tutto il mondo è paese»», oggi ogni paese è un mondo.
Vale dovunque, in Italia come nell’intero Occidente: le Olimpiadi appena concluse ci hanno proposto un potpourri di anagrafi diverse raggruppate sotto una stessa bandiera, diventato la normalità.
Basterebbe comunque che i partiti, anziché rimanere asserragliati nelle proprie stanze, uscissero in strada a tu per tu con la vita di tutti i giorni, dalle scuole ai luoghi di lavoro, dai mondi del tempo libero al serbatoio del volontariato, per toccare con mano come la nostra sia diventata una realtà integrata e a colori.
In questo contesto, la strada dello “ius scholae” non rappresenta una fuga in avanti, ma la semplice presa d’atto dell’esistente. Prevede la concessione della cittadinanza ai minori nati in Italia da genitori stranieri, o che vi siano arrivati entro il dodicesimo anno di età, che abbiano frequentato per almeno cinque anni uno o più cicli scolastici.
È una norma di buon senso, considerando che la scuola è il luogo di formazione per eccellenza dei futuri cittadini: in cui si parla e si impara la lingua del posto, si studiano la sua letteratura, la sua storia e le sue tradizioni, si apprendono i fondamenti della sua Costituzione e le basi dell’educazione civica. Perché negare l’ingresso a pieno titolo nella comunità nazionale a chi fa questo percorso?
È un tema tanto più urticante se messo a confronto con la normativa attuale, oltretutto peggiorata rispetto alle regole del 1992 dai decreti sicurezza firmati Matteo Salvini di fine 2018: oggi per ottenere la cittadinanza italiana occorrono fino a quattro anni di attesa, con criteri altamente discrezionali.
Un collo di bottiglia anacronistico, in un Paese dove vive un milione di minori stranieri, oltre un decimo dei quali è già di seconda e terza generazione; in un’Europa in cui più di 60 milioni di persone, un quinto della popolazione residente, sono nate all’estero. Purtroppo, l’Italia paga il pervicace persistere di una strategia fuorviante fin dall’inizio, che vede l’immigrazione come un problema di sicurezza anziché come un terreno di convivenza.
Storia antica, d’altra parte: da quando esiste l’uomo moderno, il cosiddetto “sapiens”, vale a dire oltre 200 mila anni, i suoi esponenti si sono sempre mossi a tutto campo in giro per il mondo.
Con una particolarità che ci riguarda da vicino, segnalata dallo studio del genetista americano Craig Venter: trentamila anni fa, un gruppo di africani arrivò in Europa e soppiantò i residenti locali. Chissà che effetto farebbe al caucasico generale Roberto Vannacci, se oggi scoprisse nel suo albergo genealogico un remoto antenato con la pelle nera.