Il mega debito pubblico dell'occidente
Se la candidata democratica Kamala Harris dovesse fare il tifo per il suo avversario Donald Trump? Perché entrando alla Casa Bianca, lei da democratica ultrà dei diritti delle minoranze e, almeno a parole, dei derelitti potrebbe dover rinunciare all’eredità che le lascia Joe Biden o rinnegare sé stessa. Gli Stati Uniti hanno un debito monstre: 34 mila miliardi di dollari, circa il 60 per cento di quello dei Paesi dell’Ocse, ma hanno soprattutto il deficit fuori controllo. Il Congressional budget office (un organismo molto simile al nostro Ufficio parlamentare di bilancio) lo stima al 6,7 per cento del Pil, cioè 1.640 miliardi di dollari, la cifra più alta mai raggiunta negli Usa in un periodo non connotato da crisi. Si potrebbe pensare che questa sia una faccenda che riguarda solo chi sta dall’altra parte dell’Atlantico, e invece - per dirla con Italo Calvino - leggendo bene questi conti se ne deve ricavare una «lezione americana»: il deficit e il conseguente gonfiarsi del debito sono il vero punto di debolezza dell’Occidente. Non tanto, o non solo per l’entità, ma soprattutto per le ragioni che lo determinano.
Ci sono almeno quattro linee guida dell’Ovest del pianeta che vengono messe in discussione da questi conti: la prima è che la politica monetaria possa tutto, la seconda è che il welfare sia sostenibile con la fiscalità, la terza è che le politiche migratorie di accoglienza diano benefici economici immediati, la quarta è che uno sviluppo a prescindere dal dato demografico assicuri comunque l’equilibro del sistema della protezione sociale. Sono i temi sui quali i democratici americani, e dunque Harris, si dovranno confrontare per tentare di riequilibrare i conti pubblici semmai continueranno a governare, ma sono le scadenze che da Washington s’allungano soprattutto verso l’Europa. Si può ben pensare che anche la Cina non stia messa meglio e che dunque occuparsi del debito e del deficit generato dai sistemi sociali non sia essenziale nella competizione globale, ma è sbagliato. Pechino ha dalla sua il vantaggio delle dittature: quello di imporre soluzioni. Conviene ricordarsi che per la prima volta lo scorso anno il debito mondiale complessivo ha quasi pareggiato il Pil: 100 mila miliardi di dollari contro 105 mila. L’enorme massa di debito è dovuta per 56 mila miliardi al pubblico, per 34 mila miliardi alle obbligazioni del sistema privato e per 12 mila miliardi all’esposizione dei Paesi non Ocse.
Il caso della Cina è molto particolare: si stima che il debito cumulato tra pubblico e privato valga 59 mila miliardi di dollari, ma Pechino lo tratta come una questione politica, lo finanzia con un export forsennato e soprattutto lo cancella per decreto come già avvenuto con la crisi dei giganti dell’immobiliare. È sì alle prese con l’invecchiamento della popolazione e la riduzione dei consumi, ma il Dragone ha imposto alla sua banca centrale di ridurre i tassi al 2,3 per cento, di immettere 200 miliardi di dollari di liquidità e ha varato la legge sulla natalità: ogni donna deve fare almeno due figli. Con buona pace della presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde che, spaventata dall’inflazione, a fronte di una Ue che non cresce, tiene il freno a mano tirato sui tassi e soffoca la domanda interna. Nella competitività globale ci sono Paesi che possono giocare un ruolo dirompente: hanno basso reddito, basso debito, un saldo demografico positivo e una crescita impetuosa. Un caso di specie è l’India: Pil in crescita del 7 per cento, export sopra i 650 miliardi di dollari, tassi a zero, reddito pro-capite ancora misero (duemila dollari l’anno) ma raddoppiato in 10 anni su una popolazione di 1,5 miliardi di persone, debito pubblico al di sotto del 90 per cento del Pil e 100 miliardi di dollari che ogni anno tornano con le rimesse dei migranti.
Ce n’è abbastanza per interrogarsi sulla lezione americana. Addentrandosi nel deficit Usa, si apprende che a fronte di entrate stabili (circa il 17 per cento del Pil) la spesa di Joe Biden è esplosa oltre il 24 per cento. E questo nonostante l’economia continui a crescere a ritmi inaspettati: l’ultimo dato dà un Pil in ascesa del 2,8 per cento contro una previsione che stava sotto i due punti. Ebbene c’è da capire dove «Sleepy Joe» abbia messo i soldi. Sono tre i capitoli di spesa proiettati a livelli stellari: le pensioni sociali - si stima che saranno 67 milioni gli americani che riceveranno quest’anno l’assegno -, la sanità e l’assistenza ai più deboli. A queste si aggiunge la spesa per interessi, che da quando il governatore della Federal reserve Jerome Powell ha deciso di lottare senza quartiere contro l’inflazione è arrivata al 3,2 per cento del Pil. Oggi Biden ha di fronte a sé un Paese che non sa dunque se rinunciare all’allargamento del welfare o se mettere nuove tasse per continuare a finanziare lo Stato sociale che ha un perimetro più ridotto rispetto all’Europa.
Su questo Kamala Harris si gioca, ammesso che le abbia, tutte le carte. Lei che è sempre stata in prima linea a difendere i migranti, i più poveri, lei che voleva l’assistenza sanitaria universale oggi è alle prese con un bilancio insostenibile. Stando alle proiezioni del Congressional budget office il Medicare - cioè l’assistenza sanitaria federale per anziani e disagiati - finirà i soldi entro il 2036, entro il 2033 non ci saranno più quattrini per pagare le cosiddette «pensioni sociali» e l’assistenza ai migranti. Biden aveva in animo di inasprire la tassazione a chi guadagna 400 mila dollari all’anno e i democratici sono stretti in questa morsa: o alzare le tasse o dire che hanno sbagliato i conti sul «sociale». Questo, in parte, spiega perché Biden alcuni mesi ha firmato un atto per chiudere la frontiera col Messico lungo quello che si chiama il «muro di Trump» (in realtà la barriera di sicurezza di Tijuana si trova lì dal 1993) e che Harris aveva promesso, da vicepresidente, di abbattere.
Gli americani hanno scoperto che l’invecchiamento della popolazione non si combatte con l’aumento dell’immigrazione: nell’immediato aggrava soltanto i costi sociali. L’ultimo escamotage con il quale i democratici hanno cercato di «nascondere» questa difficoltà è emettere molti titoli di Stato a breve scadenza per fare cassa. Ma se questo ha portato alla segretaria al Tesoro Jennet Yellen soldi freschi, ha anche accorciato drammaticamente la vita del debito e se la Fed non allenterà i tassi ci saranno altri pesanti esborsi. La lezione americana pone all’Europa un pesante interrogativo: con numeri simili può reggere il sistema di welfare che noi conosciamo? «La bi-presidente» della Commissione Ue Ursula von der Leyen nel suo discorso d’insediamento non ne ha fatto parola; si è preoccupata del Green deal, della migrazione e della giustizia sociale per compiacere verdi e socialisti che le hanno dato i voti, ma c’è il convitato di pietra della sostenibilità economica delle politiche sociali europee.
Lo sa il cancelliere Olaf Scholz, alle prese con la necessità di allungare l’orario di lavoro in Germania per tentare di far quadrare i conti della previdenza; lo sa il presidente Emmanuel Macron che in Francia ha dovuto fronteggiare con la polizia la rivolta per la legge sulle pensioni che oggi Jean-Luc Mélenchon, l’agitatore del Fronte popolare, vuole smantellare; lo sanno perfettamente a Bruxelles, dove promettono misure di contenimento della migrazione che il sistema di welfare europeo non regge. E lo sa anche il nostro ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti che il 17 luglio alla Camera ha detto: «Nessun sistema pensionistico è sostenibile in un quadro demografico come quello attuale in Italia».