ru24.pro
World News in Italian
Август
2024

Gli effetti della rivolta in Bangladesh

0
Nel Paese asiatico, la protesta dei giovani contro una classe dirigente che mantiene privilegi e divisioni può avere come conseguenza una spinta alla già forte emigrazione.

Non vale granché il merito in Bangladesh. Ecco che oltre il 50 per cento delle posizioni lavorative nel settore pubblico è stato finora riservato a specifiche categorie (30 per cento ai parenti di chi ha lottato per l’indipendenza dal Pakistan nel 1971, il rimanente 20 per cento a donne e abitanti di aree depresse). Per questo motivo, nel Paese asiatico, i giovani sono oggi in rivolta: accusano il governo di non fare niente per rimuovere un sistema iniquo ideato nel 1972 dal leader indipendentista e «padre della nazione» Sheikh Mujibur Rahman, nonché padre dell’attuale premier, Sheikh Hasina Wazed, la più longeva nella storia del Bangladesh (lo guida ininterrottamente dal 2009).

Studenti e lavoratori vogliono abolire i privilegi anacronistici che avvantaggiano soltanto i sostenitori di Sheik Hasina, il cui partito e i cui membri dell’élite al potere restano congelati a regole del passato che immobilizzano qualsiasi ipotesi di «ascensore sociale» delle nuove generazioni. L’analista bangladese Kamal Ahmed ha sintetizzato bene la ragione delle proteste: «Le quote non sono altro che un modo per la Lega Awami al governo di premiare i sostenitori e uno stratagemma per consolidare l’influenza del partito nella futura amministrazione».

A portare i più giovani in piazza - con una repressione che ha causato migliaia di arresti e finora oltre 200 vittime - c’è anche l’elevato tasso di disoccupazione: su una popolazione di 174 milioni, oltre 32 non lavorano né studiano, nonostante lo Stato affacciato sul Golfo del Bengala sia una delle economie in più rapida crescita al mondo. Un incremento dovuto però a occupazioni di basso livello e quasi mai specialistiche, ragion per cui non ha prodotto una vera classe borghese né ha creato posti di lavoro per laureati. Cosicché circa 18 milioni di giovani sono sempre più arrabbiati e protestano anche violentemente, salvo scegliere di emigrare. Di conseguenza, anche il numero di bangladesi che arrivano in Italia - oggi la settima comunità più numerosa di stranieri - è destinato ad aumentare. E questo nonostante la sentenza della Corte suprema abbia frettolosamente abolito la legge all’origine delle proteste: adesso il 93 per cento dei posti pubblici dovranno essere conferiti in base al merito, mentre solo il 5 per cento andrà ai familiari dei reduci di guerra. Basterà forse per riportare un ordine apparente, ma invertire la tendenza all’espatrio è tutta un’altra storia. Attualmente, dopo rumeni e marocchini, sono bengalesi i cittadini stranieri più numerosi che risiedono in Italia: al 2023 ne risultano 174 mila, secondo il ministero dell’Interno. Una cifra che, tuttavia, non tiene conto dei pur minoritari «invisibili» ovvero di coloro che, arrivati clandestinamente nel Paese (principalmente attraverso le rotte balcaniche e dal Mediterraneo orientale), sono impiegati soprattutto nei lavori più meno remunerativi del mercato.

Il Bangladesh è una delle nazioni a più alta densità abitativa, e tra le prime sei per numero di emigranti (in media, 400 mila scelgono ogni anno di partire). Si stima che siano almeno 15 milioni i bangladesi che oggi vivono e lavorano all’estero, in 157 Paesi: quelli «stabili» preferiscono da sempre raggiungere l’Europa. E l’Italia in particolare, dove sono ancor più numerosi che in Francia o Spagna, in ragione di politiche migratorie storicamente più blande, di un mercato considerato ancora «inclusivo» rispetto agli standard orientali e di una facilità di regolarizzazione. La comunità bangladese italiana si sviluppa soprattutto in Lombardia, Veneto e Lazio, dove si è registrata un’impennata in particolare tra il 2002 e il 2022, con un passaggio da 22 mila a quasi 150 mila presenze regolari (fonte: ministero del Lavoro). Il 72 per cento sono uomini, con un netto squilibrio di genere, e un’età media di 30 anni, mentre il 22 per cento della comunità è minorenne. A conferma dello scarsissimo coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro, le loro assunzioni raggiungono appena il 3,5 per cento.

In definitiva, il tasso di occupazione (regolare) dei bangladesi in Italia è del 51 per cento circa, con una percentuale che sfiora il 60 per cento di impiegati nel settore del commercio (alberghi e ristorazioni, vendite, accoglienza, servizi personali), una quota del 21 per cento nell’industria (agricoltura e costruzioni) e il resto diviso fra il settore dei trasporti e quello dei servizi (turistici e non). E si contano 30 mila «ditte individuali» in Italia, concentrate per lo più in Lazio, dove il turismo catalizza molta manodopera. Quello che è più significativo in questa panoramica, però, è il volume di scambi commerciali: già nel 2021 il Bangladesh era al primo posto come nazione che ricava rimesse più consistenti dai lavoratori presenti sul nostro territorio, con oltre mezzo miliardo di euro inviati regolarmente in patria (seguono il Pakistan con 331 milioni di euro e le Filippine con 296 milioni, secondo Bankitalia). Le cifre sulle rimesse degli immigrati in Italia si riferiscono esclusivamente ai canali ufficiali (gli operatori di money transfer, le banche e le Poste, o qualsiasi altra transazione tramite istituto o intermediario autorizzato) ed escludono quindi quelli «informali» quali il trasferimento di contante con il viaggiatore, difficilmente quantificabili e impossibili da tracciare.

Da una media ponderata, in ogni caso, si calcola che nel complesso gli immigrati stranieri residenti in Italia inviino ogni anno nei luoghi di origine oltre otto miliardi di euro: uno studio della Fondazione Leone Moressa, anch’esso basato su dati di Banca d’Italia, ha accertato che, in meno di otto anni, le rimesse sarebbero cresciute del 45 per cento fino a circa 22 miliardi di euro.