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Июль
2024

Addio a Roberto Herlitzka, un gigante dalla voce sommessa

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ROMA. Non era alto Roberto Herlitzka che se ne è andato stamane, mercoledì 31 luglio, a 86 anni; anzi con l'età si era fisicamente rimpicciolito, come a ripiegarsi su se stesso per raccogliere tutte le forze nello sguardo e nella voce. Ma appena appariva in scena o sullo schermo dominava tutto lo spazio e ne risultava un gigante gentile. Se lo incontravi per strada si comportava come una persona comune, sempre cortese e disponibile, mai un tono fuori posto come si addice a un gentiluomo torinese d'antica schiatta.

Parlava sempre a bassa voce Roberto Herlitzka, ma in teatro lo si udiva distintamente fin nelle ultime file, frutto di un'educazione interpretativa appresa alla scuola di Orazio Costa che lo fece debuttare ne «La vita è sogno» di Calderon de la Barca e lo volle con sé altre nove volte tra gli anni '50 e '60.

Per il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, dice una nota, “è stato un grande privilegio lavorare tanto e a lungo con Roberto Herlitzka, che è stato protagonista di importanti spettacoli di produzione. Ed è adesso un enorme dolore la perdita di un amico e di un Maestro di tale statura”.

Con Trieste e con lo Stabile del Friuli Venezia Giulia Roberto Herlitzka ha avuto un rapporto molto significativo, prendendo parte costantemente ai maggiori progetti produttivi del Teatro dal 1997 fino al 2015. Moltissimi gli spettacoli memorabili da lui interpretati: fra tutti sicuramente resta nel cuore di chi ha lavorato accanto a lui “La Mostra” di Claudio Magris in cui diretto da Antonio Calenda tratteggiava con il suo intenso spessore poetico e drammatico la figura di Vito Timmel. Una prova indimenticabile, di straordinario rilievo.

Ma per lo Stabile regionale Roberto Herlitzka è stato, fra gli altri, anche un ammirato “Re Lear” nel capolavoro di Shakespeare nel 2004, nel 2007 ha recitato il “De Rerum Natura” di Lucrezio nella sua stessa e bellissima traduzione, e fra il 2013 e il 2015 ha interpretato “Una giovinezza enormemente giovane”, monologo pasoliniano scritto da Gianni Borgna, accolto da standing ovation al debutto al Mittelfest e ad ogni replica del tour che comprendeva anche il Piccolo Teatro di Milano.

Era nato a Torino il 2 ottobre 1937, figlio di Bruno, di origine ebraica, emigrato in Italia da Brno in Cecoslovacchia, sposato brevemente con Micaela Berruti per poi rifugiarsi con la famiglia in Argentina riuscendo così a sfuggire alle Leggi Razziali del 1938 e lì risposarsi con la pittrice Giorgina Lattes. Tornato in Piemonte a guerra finita, il giovane Roberto si diploma al Liceo classico Massimo D'Azeglio, si iscrive alla facoltà di lettere, ma ben presto raggiunge il padre a Roma e sposa la carriera artistica diplomandosi all'Accademia d'Arte Drammatica. Naso aquilino, volontà ferrea, padronanza di tutti i mezzi del grande attore, rifiutò sempre di cambiare il cognome: «lo so che è difficile da scrivere - amava dire - ma mi ricorda da dove vengo e quella K in mezzo mi rimanda ogni volta a Kafka».

Nel mondo del teatro italiano la figura di Roberto Herlitzka domina la scena dal 1960 al nuovo secolo ed è scandita da successi con i maggiori registi: Luca Ronconi in primis, ma anche Antonio Calenda, Gabriele Lavia, Gianfranco De Bosio, Luigi Squarzina, Mario Missiroli e Lina Wermueller che lo «adotterà» al cinema. Tutto il repertorio degli immortali, dai tragici greci a Shakespeare, da Ibsen a Miller, gli era familiare e ne dava prova con un trasformismo elegante e duttile che lo rendeva credibile in costume o in abiti moderni, senza differenze. Cinque volte il mondo del teatro ne avrebbe riconosciuti i meriti tra Premi UBU, Premio Gassman, Premio Flaiano.

Al cinema e in tv invece, benché quasi sempre in ruoli di supporto o da caratterista, è stato una presenza costante fino a due anni fa quando Paolo Taviani lo chiamò per il suo ultimo film, «Leonora addio». Si affacciò alla Rai al tempo degli sceneggiati già nel 1960 con «Cenerentola» di Stefano De Stefani, ma divenne popolare un decennio dopo con «Un certo Harry Brent» di Leonardo Cortese, nel ruolo dell'ambiguo Milton a fianco di Alberto Lupo. Tra i maggiori successi in carriera: «La certosa di Parma» diretto da Mauro Bolognini, «La Piovra 7», «Qualunque cosa succeda» di Alberto Negrin, il recente «In nome della rosa» di Giacomo Battiato e perfino alcune puntate di «Boris» nel 2007.

Al cinema invece lo portò Lina Wertmueller nel 1973 («Film d'amore e d'anarchia») e questo sodalizio ideale lo ha portato a lavorare più volte con la regista Premio Oscar e con una indimenticabile generazione d'autori per più di 60 film. Da Emidio Greco («L'invenzione di Morel» di cui le Giornate degli Autori festeggiano quest'anno il 50° anniversario) a «Pasqualino Settebellezze» insieme a Giancarlo Giannini, da «Oci Ciornie» con Marcello Mastroianni a «Gli occhiali d'oro» con Philippe Noiret, da «Tracce di vita amorosa» di Peter Del Monte a «In nome del popolo sovrano» di Luigi Magni, Herlitzka seppe subito ritagliarsi un posto di primo piano fino a tutti gli anni '80.

Ma è stato l'incontro con Marco Bellocchio («Il sogno della farfalla», 1994) a proiettarlo in una dimensione da «altro» protagonista culminata nella sofferta e intensa incarnazione in Aldo Moro al tempo di «Buongiorno notte» del 2003. Con Bellocchio ha diviso il set in quasi tutti gli ultimi lavori del regista, come in «Bella addormentata», «Sangue del mio sangue» (un memorabile vampiro dagli accenti umanissimi), «Fai bei sogni». Intanto Herlitzka entrava nell'immaginario collettivo grazie a Paolo Sorrentino (il cardinale di «La grande bellezza» e Crepuscolo in «Loro»), scopriva una nuova giovinezza con Roberto Andò («Il bambino nascosto» insieme a Silvio Orlando), si metteva a disposizione di giovani talenti come il debuttante regista Luigi Lo Cascio, Giorgio Pasotti, i fratelli De Serio, Elisabetta Sgarbi.

Nella sua libreria se ne trovava memoria con le statuette del David, i Nastri d'argento, il Pasinetti alla Mostra di Venezia, il Premio Gassman al Bif&st di Felice Laudadio a Bari. L'espressione «gigante gentile» gli si addiceva e lo faceva sorridere: della sua sommessa e folgorante presenza non si poteva fare a meno. Oggi che non c'è più lo vediamo come il «suo» Aldo Moro alla fine di «Buongiorno notte»: il passo leggero, quasi sospeso nell'aria, a varcare una soglia sconosciuta, un palcoscenico da calcare con la curiosità felice di chi va a scoprire una nuova scena dove esibirsi per l'eternità.