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Июль
2024

L’Italvolley degli anni ‘90 protagonista in un documentario diretto da un regista padovano

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Non conta l’età di ciascuno e se si ha avuto modo di ammirarli dal vivo, in tivù o solo nei racconti o nei filmati. Tutti hanno sentito parlare di loro. È la “Generazione di Fenomeni La miglior squadra di pallavolo del XX secolo”, frase che già da sola evoca ricordi ed emozioni. Non a caso è stata scelta come titolo del documentario che andrà in onda domani in prima serata su Rai Due. Dentro c’è molto Veneto. Perché tanti sono i veneti protagonisti della Nazionale degli anni ’90, per tre volte di fila campione del mondo, e perché padovano è il regista, Paolo Borraccetti, già tra gli autori di Zelig e di documentari presentati ai festival di tutto il mondo.

Borraccetti, come è nato questo lavoro?

«Lo spunto nasce da Andrea Zorzi. Lui e la casa di produzione romana Dinamo hanno iniziato a sviluppare il progetto e hanno coinvolto me e Rai Documentari. Lo abbiamo scritto io e Filippo Nicosia, ma Andrea è sempre rimasto al nostro fianco, anche come “gancio” per incontrare gli altri atleti intervistati».

Lei ha alle spalle un percorso professionale ricchissimo, ma questo è il primo documentario di taglio sportivo.

«Avevo fatto qualcosa per Discovery sul rugby, ma mai un lavoro di 90 minuti. Confesso che sono sempre stato un grande appassionato di pallacanestro, ma questa è stata una bellissima avventura. Va anche detto che, fino a qualche tempo fa, in Italia la proposta di un documentario di questo tipo non sarebbe stata nemmeno presa in considerazione dai grandi network. La tendenza è cambiata negli ultimi cinque o sei anni, seguendo il varco che si è aperto a livello internazionale».

Lasciamo per un attimo da parte il regista: il Paolo ragazzo (Borraccetti è del 1974, ndr) che ricordi ha di quell’epopea?

«Ricordo i compagni, ma soprattutto le compagne di scuola – perché il seguito era soprattutto femminile – con cui andavamo alle partite al San Lazzaro. Era un momento particolare. Lo sport in tivù era in espansione, Berlusconi e Ferruzzi sono entrati nel mondo della pallavolo con risorse ingenti. E noi potevamo vedere quei campioni davanti ai nostri occhi, a Padova».

Come racconta Zorzi, capitava che venissero fermati per strada: in Italia non era mai successo prima a un pallavolista.

«Le riviste specializzate vivevano un vero boom e la Gazzetta dello sport, che prima non dedicava al volley tanto spazio, cominciò a riservare loro pagine ogni giorno. Nessuno di loro pensava che con la pallavolo avrebbe dato una svolta alla propria esistenza, eppure è successo. E in me, non lo nascondo, è subentrata anche una certa nostalgia perché il rapporto tra l’atleta e la gente era diverso: parliamo di atleti al livello più alto possibile eppure erano – e sono ancora – “accessibili”. E poi c’è tanta Padova in quella generazione: il compianto Pasinato e Meoni, e Zorzi, Martinelli e Tofoli, che hanno giocato qui».

Chi l’ha impressionata di più?

«Sono tutte persone di spessore, tant’è che abbiamo raccolto materiale per almeno un altro paio di puntate. Zorzi, per dire, è un uomo dai mille interessi, con cui puoi parlare di tutto. Ma lo stesso Giani, da cui non sapevo cosa aspettarmi, è stato molto disponibile. De Giorgi ha un’ironia da istrione che conquista, ha raccontato di come, per tutta la carriera, gli abbiano ripetuto: “Tu sei bravo, ma se fossi alto qualche centimetro in più…”. Oppure Gravina, che oggi fa il manager di una multinazionale e che già all’epoca era soprannominato “il filosofo” per come era fuori dagli schemi».

Sono molto curiosi i tanti filmati d’epoca.

«È stato prezioso il lavoro negli archivi di Rai e La7, che ha quello di Telemontecarlo, e tra i giornali. Ma la svolta c’è stata quando Tofoli ci ha contattato per darci dei Vhs che girava nelle trasferte: la prima videocamera la comprò in Giappone riprendendo i dietro le quinte. La sensazione che hai è quella di un gruppo in gita o in Erasmus, ed è straniante se pensi che invece parliamo di atleti che hanno vinto tutto o quasi».

Quanto tempo ci ha speso?

«Circa nove mesi, ma il lavoro era cominciato prima di me. C’è stata un’accelerazione voluta dalla Rai per mandarlo in onda prima delle Olimpiadi. L’Italia arriva a Parigi da campione del mondo, ma l’oro a cinque cerchi è sempre rimasto stregato. L’attesa oggi è forte e i punti di contatto con quella generazione sono diversi: da De Giorgi che ora è il ct, al figlio di Bovolenta in campo. Chissà che sia la volta buona».