Ho chiesto a un imam cosa pensa delle bandiere palestinesi al gay pride
Disclaimer: questo è un articolo di opinione che riflette l’idea personale dell’autore e che non ha subito alcuna revisione o modifica da parte di Termometro Politico.
Archiviata la tornata elettorale europea, prima che l’esordio della nazionale a Euro 2024 narcotizzasse buona parte del Paese (me compreso) davanti alla tv sono stati due gli eventi mediatici di questa settimana ad attirare la mia sempre più labile attenzione. Il primo – per motivi squisitamente professionali – è stato il pacchianissimo G7 di Borgo Egnazia, che non è, come molti erroneamente pensano, il nome di una località bensì quello di un resort di lusso la cui architettura richiama le casine e le viuzze di un borgo pugliese: in pratica, si tratta di un non-luogo costruito artificialmente in laboratorio per rappresentare l’idea che una Paris Hilton o una Kim Kardashian potrebbero avere di un paesino del Sud Italia. Su consiglio spassionato di Bruno Vespa, gran visir di questo governo, Giorgia Meloni ha deciso di trasformare la location vacanziera di Madonna e dei matrimoni indiani da mille e una notte nella sede del summit con i grandi della Terra.
Nulla resterà di questo inutile, stanco e stra-superato rito se non le faccette da meme della Meloni – che prima civetta con il primo ministro britannico Rishi Sunak e poi incenerisce con lo sguardo Emmanuel Macron come una concorrente di Temptation Island qualsiasi – e le défaillance di ciò che resta di Joe Biden, recuperato dalla premier italiana in versione badante mentre passeggia sul prato in stato confusionale. Breve parentesi: l’inaccettabile stato di salute psicofisico del leader della prima potenza economica e militare del mondo sarebbe, in teoria, un tema serio da porre al centro del dibattito soprattutto alla luce di uno scenario geopolitico instabile squassato da due pericolosi conflitti; ma siccome Biden è un democratico e guida l’armata dei “buoni”, la stragrande maggioranza della stampa benpensante non pare affatto turbata da una questione che invece dovrebbe togliere il sonno a tutti. Ma tant’è.
L’altro appuntamento su cui vorrei soffermarmi è il Gay Pride di Roma, la grande giornata dell’orgoglio omosessuale che ogni anno vede sfilare per le vie della Capitale migliaia di persone pronte a reclamare diritti che a conti fatti già hanno. Salito sulla metro A, mi sono trovato circondato da un mare di bandiere arcobaleno – che nel giorno di Italia-Albania sovrastavano in termini numerici i tricolori e le maglie azzurre -, panciuti omoni con la barba vestiti da fatine, deliziose fanciulle dalle guance glitterate e altri discutibili individui di sesso femminile le cui corpulente gambe, costrette in calze a rete striminzite, imploravano di essere liberate come Chico Forti. Nel frattempo sui carri del Pride nelle vie del centro venivano esposti striscioni con scherzosi riferimenti alle parole di Papa Francesco sulla “frociaggine”, mentre la segretaria del PD Elly Schlein – grande protagonista della manifestazione – si dimenava sulle note di “Mon amour”: al suo fianco oltre all’inutile sindaco Roberto Gualtieri uno sculettante Alessandro Zan, padre dell’omonima legge liberticida affossata tre anni fa dal Parlamento (complice il suo stesso partito) con somma goduria di chi ha ancora a cuore il diritto all’esercizio di critica e conserva un briciolo di decenza.
In quella chiassosa metropolitana e nelle immagini della parata diffuse da social e siti un dettaglio ha catturato la mia curiosità, ovvero la non trascurabile presenza di bandiere della Palestina tra i manifestanti Lgbt. L’ostentazione dei vessilli del popolo arabo in contesti con cui quel simbolo non ha alcuna attinenza è diventata ormai una costante: basti pensare alle celebrazioni del 25 aprile condite dai fischi per la Brigata ebraica (che invece la Resistenza la fece eccome) o alla commemorazione per la strage di Piazza della Loggia a Brescia, dove sono apparsi cartelli con le facce di Meloni, Erdogan e Putin tra cori anti-fascisti e inni pro-Palestina. Eppure risulta assai difficile immaginare un luogo meno idoneo di un Gay Pride per perorare la causa palestinese, dal momento che a Gaza i diritti delle persone Lgbt sono sistematicamente violati (cosa che non accade nell’odiato Stato israeliano, uno dei Paesi più gay-friendly al mondo).
Mi sono quindi chiesto come possa reagire un esponente dell’Islam politico e della società palestinese di fronte alle immagini di attivisti omosessuali che sventolano la bandiera del suo popolo. La scelta è ricaduta su Mohammad Hannoun, architetto-imam trapiantato a Genova e fondatore della onlus “Abspp” (Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese, ndr). A causa delle sue relazioni con alcuni leader di Hamas, Hannoun è stato accusato dall’intelligence israeliana di essere un finanziatore occulto dell’organizzazione terroristica: ombre che il diretto interessato ha sempre respinto parlando di campagna “calunniosa” da parte di Tel Aviv. “Allora, signor Hannoun: cosa ha provato nel vedere i simboli della Palestina sui carri del Gay Pride?”, chiedo al telefono. Dopo un silenzio di qualche secondo l’architetto mi dice che è un giorno di festa e che sta incontrando la sua comunità, per cui non può intrattenersi al cellulare con me. Insisto per ottenere una sua dichiarazione, che alla fine arriva e che qui viene riportata integralmente: “La solidarietà verso il popolo palestinese non è un’esclusiva di una categoria sociale. Tutti i cittadini possono esprimere la loro solidarietà per i legittimi diritti del popolo palestinese, anche il Pride. Per cui non vedo alcuna cosa strana se anche quella categoria manifesta o alza la bandiera palestinese. È una cosa legittima e da rispettare”.
Ma se l’attivismo gay pro-Palestina è ben visto da Hannoun, non si può certo dire che l’attivismo gay IN Palestina sia altrettanto accettato. Un report del 2023 pubblicato sul sito di Amnesty International disegna un quadro allarmante sulle condizioni degli omosessuali nei territori palestinesi. Rapporti consensuali tra persone dello stesso sesso continuano a essere vietati a Gaza “sulla base di un’ordinanza del mandato britannico del 1936” che prevede la reclusione fino a 10 anni per chiunque abbia “conoscenza carnale” di qualcuno “contro la legge di natura”. Inoltre – scrive sempre Amnesty – dopo che l’Agenzia delle Nazioni Unite Unrwa ha pubblicato delle linee guida per il personale riguardo al trattamento equo di tutti i sessi e delle persone Lgbt, le autorità di Hamas hanno condannato queste direttive, accusandole di promuovere “la devianza e il decadimento morale”. Piccole nozioni che il popolo arcobaleno – sempre pronto a censurare le improvvide uscite del generale Vannacci, neoeletto eurodeputato – forse dovrebbe tenere bene a mente in vista del prossimo Gay Pride.
L'articolo Ho chiesto a un imam cosa pensa delle bandiere palestinesi al gay pride proviene da Termometro Politico.