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Апрель
2024

Resistenza, la ferita sanguina ancora

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A vent’anni dall’uscita, torna una nuova edizione de Il sangue dei vinti, libro con cui Giampaolo Pansa raccontò decine di episodi di «giustizia sommaria» dopo il 25 aprile 1945, liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo. Una testimonianza civile che non smette di far luce su un capitolo oscuro nella storia del Paese.

Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa, in libreria vent’anni dopo. Ci arriva con l’editore Rizzoli, una nuova veste grafica, una differente copertina e la prefazione di Luca Telese. Non è cambiata, dal 2003 a oggi, la convinzione che anche lo strazio di chi è stato sconfitto dovrebbe meritare almeno la compassione del ricordo. Anche se le vittime stavano dalla parte sbagliata e per scelte che - il più delle volte - non consentirebbero nemmeno l’attenuante di una giustificazione. Il tempo immediatamente successivo alla fine della Seconda guerra mondiale - fra il 1945 e il 1948 - si portò appresso la confusione di un’anarchia latente con il desiderio di provvedere da sé per ripagarsi dei torti subiti senza aspettare la giustizia. I fascisti (ormai ex), perse le protezioni e deposta l’arroganza che li animava, si trovarono braccati dai partigiani molti dei quali - per auto-attribuzione - si erano investiti del ruolo dei vendicatori e contemporaneamente dei giustizieri.

La fine della guerra era stata dichiarata ma - come se fosse andata perduta l’abitudine alla pace - la violenza si prolungò oltre la fine delle ostilità. Per mesi, le strade delle città del Nord si trovarono ingombre di cadaveri: corpi di fascisti accoppati nella notte ma anche gente che, con il passato regime aveva intrattenuto rapporti sporadici. I morti ebbero la faccia dei nemici politici ma anche quella di persone normali, finite nel tritacarne della vendetta per antichi rancori, dicerie o calunnie. Di quelli che, in qualche modo, si erano trovati su quelle sponde ideologiche delle vittime, Pansa non condivideva praticamente niente ma si era convinto che occorreva mettere un punto fermo nella storia di quegli anni. Indispensabile fare i conti con il passato per chiuderli, una volta per tutte, e occuparsi di amministrare il presente (prima) per progettare il futuro (poi).

Ecco che Il sangue dei vinti recuperò decine di vicende rimaste nascoste nelle pieghe dei ricordi della gente ma rigorosamente cancellate dalle citazioni della storia ufficiale. L’effetto fu deflagrante ma non nel senso auspicato da Pansa di crescere in consapevolezza. La pubblicazione fu considerata una raccolta di arbitrarie provocazioni e al grido di «giù le mani dalla Resistenza» fu osteggiato e messo all’indice proprio da quei segmenti sociali cui, più di ogni altri, era diretto. E poiché, a distanza di vent’anni, il clima politico e culturale non è così tanto cambiato, vale la pena di insistere per «bucare» la coscienza collettiva e riproporre un racconto che valga come auspicio di riappacificazione.

La penna del giornalista con quella sua prosa asciutta, rivitalizzò pagine sbiadite e - nero su bianco - tratteggiò il profilo di vite annegate nel terrore. Si cominciò subito. Il 27 aprile 1945, a Cigliano, dove la provincia di Vercelli va sfumando in quella di Torino, 24 ragazzi allievi ufficiali si arresero con la mediazione del parroco. Venne firmato un documento dal maggiore Invrea e dal comandante della divisione garibaldina Piero Germano detto «Ghandi». Ma, a dispetto delle dichiarazioni scritte, il 2 maggio, li fucilarono a Graglia, alla periferia di Biella. Con loro, anche cinque donne che si trovavano nel gruppo: due mogli, due ausiliarie e un’infermiera. Il 30 aprile, un reparto di militi delle Bande Nere stava asserragliato nel collegio Brandolini di Oderzo, in provincia di Treviso. Attendevano gli alleati, invece arrivarono gli uomini della divisione Nannetti. A gruppi separati, li spintonarono fin sugli argini del fiume Monticano e li giustiziarono. A galleggiare sul filo dell’acqua rimasero 113 cadaveri. E, sempre nel Trevigiano, 110 marò della «Decima Mas» furono passati per le armi a Cà Roer. I corpi vennero gettati in un vecchio bunker che fu fatto saltare con la dinamite perché le macerie coprissero i morti. La lezione di Kappler, alle Fosse Ardeatine, aveva fatto scuola. Gli episodi si inanellarono come i grani di un rosario, anche se ebbero - e hanno - scarsa notorietà. C’è voluto Pansa per citare i 19 ammazzati del 2 maggio a Revine Lago (ancora a Treviso) o i 65 che, nella notte del 3 maggio, cercarono rifugio nell’ospedale psichiatrico di Vercelli e finirono davanti a un improvvisato plotone d’esecuzione.

Episodi, a volte, incomprensibili. A Schio, i partigiani fecero irruzione nel carcere cittadino, ammassarono i detenuti nel cortile e li falciarono senza nemmeno domandarsi quale imputazione li avesse portati in prigione: 55 cadaveri. Talvolta la pur sommarie sentenze sembrarono mirare per un verso giusto. A Torino, in corso Vinzaglio, impiccarono il federale della città, Giuseppe Solaro, responsabile nei mesi precedenti di una crudele sequenza di atrocità. Lo portarono in giro per due ore su una camionetta alla ricerca dell’albero adatto a cui appenderlo. Pietro Koch, un altro che si era conquistato la fama di crudele torturatore, finì davanti al plotone d’esecuzione a forte Bravetta, a Roma. E l’ex sottosegretario Guido Buffarini Guidi fu ammazzato, a Milano, semicosciente, perché aveva tentato di avvelenarsi in carcere. Ma frequentemente l’odio di classe colpì nemici, anche solo presunti, e infierì sugli amici se appena si dimostravano tiepidi o perplessi. Come avvenne a Porzûs, dove i partigiani «rossi» fecero fuori i «bianchi» di un’altra brigata di sentimenti più moderati. O quando assassinarono Marino Pascoli, che era un comunista convinto ma non sopportava le degenerazioni dei compagni. E non risparmiarono i bambini. Alla periferia di Robassomero, periferia nord-ovest di Torino, i garibaldini ingaggiarono un combattimento con reparti delle SS. Ebbero la meglio e, in un paio d’ore, i tedeschi vennero uccisi. Erano rimasti due ragazzini di 12 e 14 anni, figli di un ufficiale delle camicie nere e li ammazzarono spaccando loro la testa.

Lavezzola, a pochi chilometri da Lugo di Romagna, il 7 luglio 1945 un drappello armato bussò alla villa dei conti Manzoni. Trovarono la contessa Beatrice, i suoi figli Luigi, Giacomo e Reginaldo e una domestica. Li accusarono di collaborazionismo, ma probabilmente a interessarli maggiormente erano i preziosi custoditi nella casa. Quando stavano per ucciderli, la contessa reagì: «Portateci fuori. Non voglio che scorra sangue in casa mia». L’accontentarono e li massacrarono in giardino. A Pieve di Cento, invece, sterminarono la famiglia Govoni: sette fratelli come furono sette i fratelli Cervi ammazzati dai fascisti. Ma, se per questi il ricordo si perpetua con ammirazione, di quelli rimane una traccia evidente solo nel capitolo di Giampaolo Pansa. Dino, 41 anni, il più grande; e poi: Marino, Emo, Giuseppe, Augusto, Primo e Ida, tutti fra i 32 e i 20 anni. Avevano aderito alla Repubblica di Salò, senza entusiasmo e addirittura con poca convinzione. Quando i giustizieri del popolo fecero irruzione nella loro casa, la ragazza stava allattando la figlia di due mesi. Gliela strapparono di mano e la issarono a forza sul camion. Ad Argelato, dove li trasportarono, vennero spogliati, seviziati e strangolati uno a uno. Con loro, altri dieci disgraziati, imputati genericamente di non stare dalla parte giusta.

Pansa lo ha sempre detto che questo non significa sostenere che «tutta la Resistenza» era responsabile di colpe - anche grosse - da farsi perdonare. I meriti e gli ideali restano indiscussi. Ma perché non prendere atto di eccessi, contraddizioni, disvalori e ignominie? Perché, in effetti, la storia presenta troppe pagine bianche che andrebbero scritte con gli aggettivi della crudeltà. L’«ordine di voltare pagina» del leader comunista Palmiro Togliatti, arrivò nel settembre 1946. Gli omicidi erano «una macchia che bisognava cancellare». Già. Nel triangolo Modena-Reggio-Ferrara, in venti giorni, dal 25 aprile al 18 giugno 1945, i morti ammazzati furono mille ma, di tutti, solo di 90 si conoscono i nomi. Figurarsi quelli dei responsabili.