Suicidi in carcere, i 5 milioni stanziati da Nordio non faranno miracoli senza una riforma ampia
Li arrestiamo, li ammassiamo in celle sovraffollate, li rendiamo numeri e corpi che nessuno guarda mai in faccia, li lasciamo in isolamento, li priviamo dei contatti famigliari ma poi paghiamo gli psicologi affinché facciano in modo che non si ammazzino. L’annuncio del ministro Nordio di stanziare cinque milioni di euro per la prevenzione dei suicidi in carcere, da usarsi per assumere personale dell’area psicologica e trattamentale, è senz’altro da accogliere con favore, ma non è certo una soluzione che dimostra vedute ampie e consapevolezza della complessità della situazione.
Per prima cosa: fino a quando continueremo a incarcerare a questi ritmi, non basteranno i milioni spesi e i professionisti assunti a far fronte alle tragedie nelle carceri. Questo governo ha contribuito enormemente, con una volontà specifica e rivendicata, all’utilizzo del carcere per rispondere ai più diversi comportamenti considerati da censurare, dall’organizzazione di rave party all’uso di droghe leggere in modica quantità. Gli alti numeri della popolazione detenuta non sono frutto di accidenti ma di politiche penali ben precise e, ripeto, rivendicate con orgoglio. Con orgoglio si mandano in galera le persone più marginali e più disperate della nostra società, quelle con problemi di dipendenza, quelle con problemi psichiatrici, quelle con ogni tipo di disagio sociale. Quelle che poi si impiccano.
Inoltre, benissimo lo stanziamento: più professionisti entrano in carcere con funzioni capaci di prestare attenzione alla singola persona e al singolo percorso di vita individuale e meglio è. Ci si poteva pensare prima, senza aspettare la strage di suicidi cui abbiamo assistito negli ultimi tempi. Ma, detto ciò, affinché non si riduca a un mero atto di propaganda, anche altre cose andrebbero fatte. E viene da chiedersi perché non siano state fatte finora, posto che si tratta di semplici atti amministrativi che non necessitano neanche di una spesa specifica.
Innanzitutto, uno sguardo ai suicidi avvenuti negli ultimi mesi nelle carceri italiane ci mostra che le persone si tolgono spesso la vita durante le prime fasi della loro detenzione. L’impatto con il carcere è devastante e traumatizzante. Ci si aspetterebbe che le sezioni di prima accoglienza fossero quelle dove maggiore è l’attenzione istituzionale, dove più alta è la presenza di educatori e psicologi, dove massimo è il contatto umano. Invece molto spesso è vero l’esatto contrario. I cosiddetti nuovi giunti vengono allocati in sezioni fatiscenti e dimenticate, dove trascorrono le giornate chiusi in cella a non fare nulla, con la sola compagnia dei propri pensieri e della propria disperazione, con pochi o nulli contatti con le persone care che hanno lasciato fuori.
E qui veniamo al secondo punto: la legge prevede che si possa parlare con i propri cari per soli dieci minuti alla settimana. Figli, figlie, mogli, mariti, padri, madri, sacerdoti e altri punti di riferimento: tutti concentrati in dieci minuti settimanali. La pandemia aveva portato a un allargamento delle telefonate concesse. Una voce amica in un momento di disperazione può cambiare per sempre un destino. Possiamo riempire il carcere di psicologi, ma se poi lasciamo le persone sole e private degli affetti neanche i professionisti potranno fare molto per sostenerle. Eppure, con esplicita e rivendicata scelta, si è deciso di ritornare a quanto vigente prima dell’emergenza sanitaria.
Ben vengano dunque i cinque milioni di euro, ma restiamo consapevoli che non faranno miracoli. Se non li inseriamo in una programmazione riformatrice più ampia sulle carceri italiane, saremo facili profeti nel dire che non invertiranno la tragica sequenza suicidaria cui stiamo assistendo.
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