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Апрель
2024

Cinema, morto Bulajić: lo chiamavano «il regista di Tito» ma suo fratello venne internato

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BELGRADO Era stato bollato come il “regista di Tito”, ma lui non amava la definizione e puntualizzava che il fratello era stato persino internato a Goli Otok, il gulag dell’Adriatico, altro che intellettuale di regime.

Di certo, è stato uno dei più grandi – se non il maggiore regista jugoslavo, il più rilevante artefice dell’epopea della lotta di Liberazione partigiana nei Balcani trasposta sul grande schermo. E con lui se ne va un pezzo del Novecento. Pezzo da novanta che rispondeva al nome di Veljko Bulajić, spirato ieri alla veneranda età di 97 anni.

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Nato a Vilusi, nell’odierno Montenegro, nel 1928, Bulajić è stato per decenni sinonimo dei colossal “made in Jugoslavia”, in particolare quelli focalizzati sul drammatico periodo dell’occupazione nazifascista del Paese e della lotta partigiana. L’apice, “La battaglia della Neretva”, un cast d’eccezione che comprendeva Orson Welles, Yul Brynner, ma anche Franco Nero, Hardy Krüger, Oleg Vidov e Sylva Koscina, candidato agli Oscar nel 1970 ma battuto da Z di Costa Gavras. Il film ottenne però un successo strepitoso al botteghino ed è rimasto per decenni fra i più trasmessi dalle Tv di tutto il mondo.

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Bulajić è stato tuttavia anche altro. La sua formazione avviene infatti al Centro sperimentale di Cinematografia, sotto lo sguardo di Cesare Zavattini, per poi proseguire come assistente di De Sica, De Santis e Fellini, prima del ritorno in patria. Lì, nel 1956, inizia a raccontare la nuova Jugoslavia, con le sue luci e le ombre, con una rapida scalata al successo prima con il film d’esordio, Il treno senza orario, di cui fu co-sceneggiatore il grande Elio Petri, poi con La Guerra, scritto da Zavattini, e ancora con Kozara l’ultimo comando e Lo sguardo nella pupilla del sole. Questi i film che hanno preceduto il colossal La battaglia della Neretva, su cui i produttori e la Jugoslavia puntavano tanto da aver convinto – si dice con qualche bottiglia di buon vino – il grande Pablo Picasso a disegnare il poster ufficiale del film. Ma Bulajić fu anche il regista di Quel rosso mattino di giugno – attentato a Sarajevo, premiere organizzata da Vittoria Leone, la first lady italiana del tempo. E documentarista per “Skopje 63”, sul catastrofico terremoto che rase al suolo l’attuale capitale macedone, film fortemente sostenuto dallo stesso Tito – vorace cinefilo che guardava una pellicola ogni sera.

E proprio il fatto di essere stato scelto per girare i colossal jugoslavi è stata forse la “maledizione” di Bulajic, spesso accusato di essere la voce del regime e, appunto, il «regista di Tito». Ma Bulajić teneva a mettere dei paletti, ricordando di aver solo «ricevuto il sostegno totale di Tito» prima di girare La battaglia della Neretva e che lo stesso Maresciallo aveva dato carta bianca al regista, ma di non voler essere ricordato in questo modo. Aveva ragione. Non era infatti un favorito o un raccomandato, tanto che il fratello Stevan, intellettuale e sceneggiatore, fu spedito a Goli Otok dopo aver criticato pubblicamente l’élite socialista per il suo stile di vita troppo agiato. Un altro fratello, invece, fu ucciso in Montenegro, dopo che aveva insultato gli occupanti italiani. Di certo, Tito «fu una figura storica importantissima», fece tantissimo «nella guerra di Liberazione» ed ebbe il merito di «opporsi a Stalin», ma sbagliò «su collettivizzazioni e Goli Otok», spiegò Bulajić in un’intervista.

Bulajić sarà invece sicuramente celebrato per sempre per il colossal del 1970 dedicato alla battaglia della Neretva, «uno dei film più costosi» al mondo all’epoca, ricordò il regista ai media di quella Cina dov’era un vero e proprio eroe. Nell’ex Jugoslavia, invece, le opinioni sembrano essere come sempre divise. La notizia della morte del leggendario Bulajić ha avuto infatti enorme eco, dalla Croazia, dove ha vissuto gli ultimi decenni al nativo Montenegro – «sarà ricordato per sempre», ha detto Podgorica –, ma sui social c’è maretta. Fu «come Goebbels, solo propaganda», «per forza i suoi film erano i più visti, ci costringevano a guardarli» al tempo della Jugoslavia, una campana. L’altra, invece, lo ha esaltato come lo «Steven Spielberg jugoslavo» o come «una leggenda», che se ne è andata.