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Апрель
2024

La vera svolta verde delle foreste italiane

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Il patrimonio forestale italiano è immenso: oltre 11 milioni di ettari. È in larga parte frutto di una silvicoltura millenaria, che però stiamo dissipando. Oggi i boschi non sono adeguamente curati e valorizzati. Così importiamo l’80 per cento del legno che utilizziamo. La nostra transizione ecologica deve passare da qui.

A dar retta alla Legge sul ripristino della natura, l’ultimo atto della stagione di Frans Timmermans - guru del Green deal -, entro il 2030 dovremmo piantare 540 milioni di alberi, atteso che l’Italia rappresenta il 18 per cento del valore del continente. L’Europa nel centocinquantenario della nascita del nostro primo presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, nulla ha appreso dalle sue Prediche inutili: prima conoscere, poi discutere e infine deliberare. Altrimenti saprebbero a Bruxelles che l’Italia possiede la seconda estensione di foreste del continente, ma soprattutto che abbiano appena il 23 per cento di suolo in pianura. Per fare posto a mezzo miliardo di alberi bisognerebbe cacciare qualche milione di umani. Ciò che ignora l’Europa - e per la verità lo sanno poco anche gli italiani - è che negli ultimi dieci anni il bosco da noi è avanzato al ritmo del 2 per cento ogni 12 mesi. Il problema del nostro Paese non è la carenza di alberi, ma come li trattiamo.

Sostiene Stefano Mancuso, docente di arboricoltura all’università di Firenze, città che è una sorta di sinedrio degli alberi (e spiegheremo dopo perché): le piante sono intelligenti, più evolute di noi perché stanno sulla terra da un tempo infinitamente più remoto e ci resteranno molto più a lungo e hanno sviluppato una straordinaria capacità: non potendosi muovere sono diventate un organismo complesso, non hanno singoli organi vitali, hanno un «intelletto» e una respirazione diffuse in tutto il «corpo». Il mondo di Mancuso è meraviglioso: le piante hanno memoria, sanno difendersi, provano sentimenti. Hanno una ragione che prescinde dall’organo cervello.

Se questa è la realtà - e assai probabilmente le cose stanno così - si capisce perché una direttrice generale di ministero sia la donna che sussurra agli ontani. È Alessandra Stefani, guida la Direzione forestale e sviluppo montano del ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, ha scritto il Piano forestale e sta incitando le Regioni a guardare agli alberi come risorsa. Ha dichiarato per richiamare la centralità dei boschi: «Sono i protagonisti della sostenibilità, sono il motore dell’economia circolare e non si può prescindere dalle foreste se si vuole avere davvero avere occupazione “verde”. Per ognuna delle diverse filiere forestali sono innumerevoli i posti di lavoro che si possono creare. Ed è per questo che fondamentale sarà l’opera di formazione professionale e il recupero delle tradizioni che potranno contribuire anche a invertire la tendenza alla concentrazione nelle aree urbane».

Sostiene Fabio Renzi, segretario generale della Fondazione Symbola che da vent’anni si batte per la tutela dell’Appenino e delle zone montane: «L’Italia sta gettando via il suo futuro perché non si cura delle foreste. Sono una risorsa irrinunciabile e curare i boschi, coltivarli, regimarli, sfruttarli responsabilmente è il solo modo che abbiamo per fare manutenzione dei territori e creare economia nelle zone montane ripopolandole. Tra l’altro l’Italia ha una filiera del legno di valore mondiale e non parlo solo dei mobili, ma dei materiali da costruzione, delle biomasse, del legno come risorsa energetica». Renzi, che non può essere certo tacciato di anti-ambientalismo (quando era a Legambiente ha scritto il Progetto Ape, Appennino parco d’Europa, che resta una sorta di avanguardia dell’ecologia) aggiunge: «Non va bene chi dice: i boschi non si toccano, vanno lasciati avanzare e restare incolti. Così li si condanna alla marginalità. Va considerato che essi possono essere la chiave della ripresa delle zone terremotate del centro Italia e per questo col commissario straordinario alla ricostruzione senatore Guido Castelli si sono fatti progetti per la filiera del legno. Cosa fare ce lo hanno insegnato i frati camaldolesi con il loro Codice forestale».

Ecco spiegato perché Firenze è una sorta di sinedrio dei boschi. I benedettini hanno sempre accudito la natura, ma subito dopo l’anno Mille san Romualdo arriva nei boschi di Poppi, nell’alto Aretino. Qui mette insieme cenobitismo ed eremitaggio, fondando l’eremo di Camaldoli e rinnovando la regola impone ai monaci di piantare due alberi per ogni fusto tagliato e di accrescere ogni anno il bosco. Il risultato è la meraviglia delle foreste casentinesi che sono patrimonio Unesco e un vero frammento di paradiso in terra. Il fatto che a Camaldoli, mille anni dopo, nel 1943, sia stato scritto il codice che disegnava l’impegno dei cattolici in economia e nella società forse non è casuale. Di certo da Firenze, sempre dall’università, è partito il movimento culturale che ha designato il paesaggio - il riferimento è la Convenzione europea che lo protegge, firmata nel Duemila nella città dei Medici - come interazione uomo-ambiente e percezione del bello. Tra gli artefici c’è il professor Mauro Agnoletti - insegna storia del paesaggio e pianificazione forestale all’ateneo fiorentino - autore di un decisivo Atlante dei boschi italiani (Editori Laterza) in cui si rivendica l’unicità del nostro patrimonio forestale. Dice: «A differenza del resto d’Europa, gran parte della biodiversità dei nostri boschi è legata alla secolare influenza di attività come il pascolo, la produzione di legname, di legna da fuoco, di carbone o di alimenti. La lunga co-evoluzione tra uomo e natura ha creato un binomio inscindibile. Le abetine delle Alpi, le faggete appenniniche, i querceti delle colline interne, le pinete litoranee e le macchie di arbusti delle coste e delle isole, sono elementi di un paesaggio bioculturale che già dal Medioevo è stata studiato, valorizzato e protetto».

Basterebbe volgersi alla Sila per riconoscere questa interazione, o guardare oggi alla rovina lasciata dalla tempesta Vaia per comprendere come, al contrario, si è sottovalutata la risorsa bosco. A cavallo tra Trentino e Veneto nel 2018 ha abbattuto milioni di piante: circa 10 milioni di metri cubi di alberi. Oltre il 20 per cento è stato venduto all’estero, a lavorarlo sono stati soprattutto gli austriaci e gli sloveni perché le segherie locali non riuscivano a smaltire più di 600 mila metri cubi all’anno. Eppure lì sono nate delle opportunità, nuove imprese che hanno sfruttato gli scarti per ottenere cellulosa, le schegge per fare pannelli o come Federico Stefani, Paolo Milan e Giuseppe Addamo che hanno usato gli abeti rossi per ricavare amplificatori musicali con l’impegno di ripiantare gli alberi. Che i boschi italiani abbiano una vocazione musicale è noto da secoli: in val di Fiemme si trova la foresta dei violini, da quegli abeti rossi Stradivari traeva i suoi capolavori e ancora oggi i liutai del mondo arrivano lì in cerca del legno giusto per i loro strumenti. «Bisogna tornare alla Repubblica di Venezia» riflette ancora Fabio Renzi che aveva nell’Arsenale la più grande fabbrica del Cinquecento e usava i boschi del Cansiglio come riserva: tagliando e ripiantando». La lavorazione del legno per il nostro Paese vale 57 miliardi di euro, quasi il cinque per cento dell’intera manifattura, con un incremento del 12,6 per cento nell’ultimo anno e un export che ci porta 21 miliardi, divisi in 15 miliardi per l’arredamento e sei per altri prodotti in questo materiale.

Nell’edilizia con il legno siamo il terzo produttore, ma primi nella ricerca sulle strutture portanti. Che sono il futuro della bioedilizia e della sostenibilità, basta considerare che il 97 per cento del legno a fine vita può essere riciclato. A confermare però che non sfruttiamo bene il patrimonio verde ci sono tre dati. Il primo è che la filiera forestale (cartiere comprese) vale appena 15 miliardi; il secondo, ed è un dato sconcertante, che importiamo oltre l’80 per cento del legno utilizzato. Sono oltre 20 milioni di metri cubi che compriamo all’estero, pagandoli carissimi perché con il conflitto in Ucraina e le conseguenti sanzioni mancano 9 milioni di metri cubi che importavamo da Kiev, dalla Russia e dalla Bielorussia.

Ma il terzo dato è ancora più sorprendente ed è contenuto nello studio Le foreste d’Italia, che i Carabinieri forestali hanno compiuto insieme con il Crea, il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’economia agraria. Sono appena il 4 per cento le aree interessate da arboricoltura, in un Paese dove il bosco cresce ogni anno di 37,8 milioni di metri cubi, 4,2 metri cubi in media per ettaro, e dove nel 37,4 per cento dell’intera superfice boscata (oltre 11 milioni di ettari con quasi 9 milioni coperti da alto fusto) non si svolge alcuna attività. È un giacimento d’oro verde non sfruttato, mentre la montagna subisce il suo più drammatico spopolamento.