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Март
2024

Al Pero, un centro sociale ante litteram a Padova dove non mancava mai un piatto di pasta per nessuno

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In illo tempore, quando la barbarie del “finger food” era di là da venire, andava di rigore lo “spunciòn”: saporito e stuzzicante biglietto da visita dei vari porti d’approdo del vasto popolo delle ombre, dalle trattorie alle osterie, dalle “samarche” alle “furatole”.

Per decenni, nella seconda metà del secolo scorso, l’autentica accademia patavina di questa realtà diffusa era il “Pero”: radici nell’Ottocento, così chiamato da un albero che sorgeva all’incrocio tra via Santa Lucia e via Dante. Un po’ avvizzite nei decenni, ma magistralmente rivitalizzate negli anni Cinquanta da Valentino Toninato e Ida Schiavon, affiancati strada facendo dai giovanissimi nipoti Luciano e Bruno Salvadego: con i quali la trattoria sarebbe decollata alla grande, grazie anche all’innesto dal 1957 di un singolare personaggio, Gioacchino Bragato, bravissimo pittore naif e al tempo stesso cuoco di professione, che maneggiava con eguale perizia pennelli & mestoli.

Fino agli anni Novanta, quando ha chiuso i battenti, quel locale sotto quella gestione è diventato molto più di un luogo dove si mangiava bene e con poco: come scrive Aldo Comello nella sua magistrale prefazione a un libro che ne raccoglie i ricordi di tanti protagonisti, è stato «simbolo di equità sociale, monumento a valori come l’amicizia, la solidarietà, l’abbraccio di persone ad altre persone». Un riferimento assolutamente trasversale, che accomunava vip della società e ultimi della classe, che lì potevano trovare «un piatto di minestra e il calore della comunità». Ai tavoli si alternavano professori universitari e poveri senzatetto, politici di primo piano inclusi tutti i sindaci succedutisi a Padova e macchiette popolari come Ernesto e la Gaetana. Agli indigeni si accompagnavano, di sera, volti di primo piano delle compagnie che andavano in scena al vicino teatro Verdi: da Dario Fo e Franca Rame a Macario, Totò, Gino Bramieri, fino al mitico Mike Bongiorno.

Chi poteva pagava, comunque poco: ancora negli anni Sessanta si usufruiva di un pranzo in piena regola con 500 lire. Ma il “Pero” dava risposta anche al richiamo evangelico dell’«avevo fame»: povera gente cui veniva servito senza presentare il conto primo, secondo, contorno, un quartino di rosso e caffè (correzione inclusa, se si era in vena di generosità). Una cucina per stomaci forti, grazie alla sapiente mano di Gioacchino, che sfornava con un mix di disinvoltura & perizia fagioli con cotiche e zuppa di verze, piedino di maiale e testina di vitello, oltre a badilate di baccalà.

Nel suo piccolo, una straordinaria Bengodi dove un manipolo di addetti riusciva a sfornare anche qualche centinaio di coperti al colpo, specie a pranzo, dove una regola non scritta ma autorevole prevedeva quattro turni, da mezzogiorno in poi: gli operai, gli ambulanti delle piazze, gli impiegati, e da ultimo i senzatetto.

È stato un mondo di sostanza e di qualità, emblema di una Padova ormai evaporata sotto il soffio perverso di una modernità che tutto appiattisce. E che rivive oggi in una carrellata di testimonianze pazientemente raccolte nel tempo da Gioacchino Bragato (alcuni degli autori nel frattempo se ne sono andati), accompagnate da una carrellata di foto del mitico studio Fotolux di Franco Toma, e dai disegni dedicati al “Pero” e al suo mondo da artisti di valore che l’hanno sperimentato da commensali. Da leggere mentre sullo sfondo echeggia, da ideale colonna sonora, il richiamo dei “Carmina Burana”: in taberna quando sumus / non sapemus quod sit humus.