Le differenze nell’uso dell’analytics predittivo tra grandi aziende e PMI
Nel precedente articolo del nostro monografico, abbiamo spiegato i possibili ambiti di applicazione dell’analitica predittiva, un settore che va osservato con grande interesse perché potrebbe rappresentare, in futuro, una leva significativa per lo sviluppo delle aziende e per un miglior direzionamento del proprio business. Irene Di Deo è una ricercatrice senior che ha fatto parte del gruppo di lavoro che ha firmato lo studio «Data Culture & Generative AI: verso una nuova data experience?» realizzato dall’Osservatorio Big Data & Business Analytics del Politecnico di Milano.
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L’analisi dell’utilizzo del predictive analytics nel mercato italiano
«Per quanto riguarda le grandi imprese – spiega a Giornalettismo Irene Di Deo -, almeno nella logica della sperimentazione, secondo quelli che sono i nostri dati, poco meno di 3 aziende su 4 si sono mosse nell’ambito del predictive analytics. Anche perché è sempre più facile costruire le analisi predittive, grazie a strumenti low-code. Per quanto riguarda il settore del marketing, mi vengono in mente quelle previsioni che vengono effettuate sui clienti a rischio abbandono e sulla probabilità che il cliente non acquisti più dall’azienda o non rinnovi più l’abbonamento di un servizio. Un altro esempio che mi sento di fare è quello delle previsioni sull’upselling e sui suggerimenti sul prodotto più adeguato da consigliare al cliente. Sono analisi che partono dalla capacità predittiva».
Il predittivo sul marketing ha bisogno comunque di una propria struttura e di un team organizzato, ma ci sono anche delle altre possibili declinazioni dello strumento, alla portata anche di quelle aziende che hanno una struttura più snella: si pensi al 14% delle aziende che utilizzano predictive analytics e che lo fanno per intercettare delle tendenze in ambito finanziario. «L’utilizzo del predittivo in ambito marketing, in ogni caso, riguarda aziende più grandi perché ha bisogno di una consulenza esterna o di un data scientist interno all’azienda – ha affermato la dottoressa Di Deo -. Nel caso delle piccole e medie imprese, l’analitica predittiva è legata ai dati chiave dell’azienda: a come evolverà il fatturato o alla domanda di un prodotto in sei mesi, sfruttando le serie storiche che queste realtà hanno a disposizione. In questo caso, non viene richiesta una progettualità per l’utilizzo dell’analitica predittiva in ambito finanziario e per questo la declinazione appena descritta è più applicabile».
Ma l’analitica predittiva potrebbe avere delle sue applicazioni anche nell’ambito dell’editoria, se adeguatamente strutturato. Al momento, stando al punto di osservazione del team del Politecnico di Milano che ha condotto la ricerca, non sono presenti delle realtà italiane che hanno individuato questa strada che, tuttavia, ha delle prospettive interessanti. «Nel mondo dell’informazione nello specifico non ci è capitato di esaminare strutture che adottano sistemi di analitica predittiva – ha detto Di Deo -. Il mondo dell’editoria e dei media può comunque utilizzare analisi predittive in ottica di ottimizzazione di tutto ciò che viene nel mondo dell’advertising oppure nell’ottica di proporre a coloro che atterrano sulla pagina web i contenuti più vicini alle preferenze dell’utente, che ha già visualizzato in passato. Sicuramente ci sono delle prospettive per l’editoria che utilizzi analisi predittiva. Se noi ragioniamo su aziende media a livello internazionale, è chiaro che lì siamo di fronte a piattaforme web totalmente personalizzati con raccomanded systems alla base. L’esempio classico è quello di Netflix. Si può andare verso quell’ottica per tutte le realtà che producono contenuti: al momento, credo sia stata applicata una logica di personalizzazione dei contenuti che vengono ricevuti per mail, attraverso iscrizioni a newsletter o collegati a pagine che ha visualizzato ma che non ha approfondito».
Nonostante gli sforzi prodotti dalla nostra economia, in ogni caso, l’Italia continua a essere strutturalmente indietro rispetto al resto dei Paesi dell’Unione Europea, soprattutto quelli – come la Francia – che hanno fatto degli investimenti più strutturali sull’intelligenza artificiale. «Il fatto che abbiamo un ecosistema produttivo fatto prevalentemente da PMI un po’ rallenta questo percorso di innovazione. Le aziende più piccole hanno problemi nel trovare le competenze adeguate nel valutare la possibilità di internalizzarle o di trovare dei consulenti che offrano prodotti pronti all’uso per questo scopo. A livello di grandi aziende non siamo così indietro: il problema è che le grandi aziende sono una minoranza nel nostro Paese. Faccio un esempio paradigmatico: nelle grandi aziende abbiamo assistito a una crescita nell’adozione di figure come quella del data scientist, dal 2015 fino al 2019. Poi, c’è stata una stabilizzazione: le aziende che avevano già un data scientist hanno continuato ad assumere e a far crescere il loro team; invece ci sono delle realtà che fanno proprio fatica a trovarli. La tendenza è che sia necessario per le aziende avere anche un piccolo team dedicato ai big data, ma allo stesso tempo hanno difficoltà a formarlo. Per quanto riguarda le PMI, il discorso è diverso: è fisiologico che la maggior parte di queste aziende non avrà mai un data scientist al suo interno, ma sarebbe opportuno che si dotasse quantomeno di un data analyst, per interloquire con consulenti o fornitori di soluzioni software».
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