Cisco torna in tour coi Modena City Ramblers, il 29 marzo a Mantova: «Insieme per ricordare la storia di 30 anni fa»
Stefano “Cisco” Bellotti con la sua band e alcuni storici musicisti dei Modena City Ramblers raggiungerà Il 29 marzo anche l’Arci Tom di Mantova, all’interno di un tour che toccherà 18 città italiane tra cui oltre a Mantova anche Trezzo sull’Adda nel Bresciano il 15 marzo e San Martino Buon Albergo nel Veronese il 23 marzo.
Il titolo del tour - «Riportando Tutto A Casa» - vuole celebrare il trentennale del primo album pubblicato dal gruppo emiliano di cui Cisco è stato una voce storica. Belotti, che ha intrapreso dal 2005 la carriera da solista, ha deciso di tornare sul palco per «ricordare con grande piacere quella storia di 30 anni fa attraverso un caposaldo importantissimo per le carriere di ciascun membro del gruppo».
Le date del tour hanno il loro apice ideale nei giorni di San Patrizio. Il legame con la musica irlandese rimane un punto di riferimento anche oggi?
«No, non è un punto di riferimento come prima: prima era fondamentale, ma adesso è soltanto una parte di tante cose che faccio. In questo tour, però, i suoni, gli arrangiamenti e i testi appartengono proprio a quello stile».
Quali sono gli altri modelli che l’hanno ispirata maggiormente nel corso della sua carriera e quali i cantanti che oggi, invece, giudica più interessanti?
«In generale il folk: il modo folk di scrivere canzoni è un modo molto semplice, se vogliamo, ma anche ricercato. Fare oggi, quando il mondo musicale è andato completamente da un’altra parte, dischi e canzoni folk, secondo me, è in qualche modo rivoluzionario. Il maestro, per tutti quanti attraversano questo genere, rimane Bob Dylan. Oggi ci sono tanti gruppi che mi piacciono: uno, non molto recente, che mi ha molto colpito per originalità e freschezza è i Mumford & Sons. Di musica italiana ne ascolto relativamente poca, ma mi sento legato alla scuola cantautorale, che un po’ si è persa, e quindi fatico a trovare qualcosa che mi emozioni profondamente».
Musica e impegno civile nel suo percorso sono indissolubili, ma la musica di oggi sembra tenersi quasi a distanza di sicurezza da temi “impegnati”. Cosa ne pensa?
«Apparentemente potrebbe anche essere così, in effetti; poi quando ascolto rapper e trapper, mi rendo conto che in realtà, a modo loro, alcuni dei loro testi sono di denuncia. È una musica che non riesco ad apprezzare fino in fondo, perché non sento mia, ma questo non vuol dire che non ci sia del materiale valido. Penso a cantanti come Willie Peyote, ma anche a Ghali. Cara Italia, per esempio, era un bel pezzo di denuncia sulla società e sui costumi italiani ed era un’idea molto fresca, molto azzeccata. La maggioranza mainstream va in tutt’altra direzione, questo è vero, però in mezzo si riescono a trovare delle gemme, qualcuno che mette in musica il proprio pensiero e la propria idea e si espone in qualche modo».
Tra “Spotify e un vecchio disco”, come canta in Riportando tutto a casa, come vede oggi la musica nel mondo delle nuove tecnologie? Cosa le pare sia cambiato e cosa sia rimasto identico?
«È cambiato tutto e ci siamo dovuti adeguare [ride]. È un cambiamento che ha stravolto la carriera e il modo di ragionare di tutti. Prima avevamo a che fare con delle case discografiche che ragionavano in un certo modo: c’erano dei budget e sapevi che dovevi far dei dischi e dei cd. Adesso è tutto cambiato. Non per forza in peggio: le piattaforme danno più accesso alla musica a tutti. Troppa accessibilità non garantisce però di trovare le cose che vale la pena ascoltare. Un altro lato negativo è che si dà scarsa attenzione alle cose. Si ascolta una nuova canzone per 30 o 40 secondi e poi si passa subito all’altra».
Anche il pubblico, quindi, è cambiato?
«Si fa più fatica ad affezionarsi agli artisti: una canzone dura due o tre mesi e poi ci si aspetta l’hit successiva di un altro cantante, che apparirà fugacemente su un telefonino o su un device. La nostra generazione in qualche modo si affezionava ai musicisti e andava a scoprire tutta la loro storia, ma vedo che, per esempio, i miei figli non hanno questo rapporto con i cantanti: ascoltano una canzone poi passano oltre. La musica è diventata una delle tante attività con cui passare il tempo, non più significativa di altre distrazioni. Un po’ questo mi dispiace, ma fa parte del gioco: non rimpiango gli anni gli anni passati, mi rendo conto che semplicemente le cose sono cambiate».
Una delle sue canzoni più intense è “Cosa lasciamo”. Le notizie del mondo che ci circondano non aiutano a essere ottimisti: qual è la sua visione?
«Tendo a scrivere le canzoni dei miei ultimi dischi pensando soprattutto alle nuove generazioni e ai miei figli. Cosa lasciamo è proprio rivolta a loro, pensando a cosa c'è stato lasciato dai nostri genitori e dai nostri nonni e a che cosa noi riusciremo a lasciare alle nuove generazioni. Sono convinto che sarebbe giusto raccogliere quello che troviamo cercando di migliorarlo, ma so che è difficile e so che così non è stato. Il mondo è sempre più complicato e sempre più devastato, però continuo a nutrire speranza nelle nuove generazioni e nei giovani perché vedo che hanno a cuore certe tematiche e quindi proseguiranno questa lotta. E forse saranno in grado, più di noi, di fare le scelte giuste».