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Март
2024

Al microscopio: “L’innovazione fulcro nelle università. Il secondo passaggio è trovare investitori”

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TRIESTE Quando parlava di innovazione, Steve Jobs amava spesso ricordare una battuta attribuita a Henry Ford, il padre dell’automobile. “Se avessi chiesto ai miei clienti cosa volevano, mi avrebbero risposto: dei cavalli più veloci”. Quello dell’innovazione è uno dei temi continuamente al centro del dibattito: cosa rende l’innovatore tale? Come è possibile stimolare l’innovazione? C’è un modo persino di insegnare l’innovazione?

Il tema è appassionante, soprattutto quando l’obiettivo, per gli educatori, gli amministratori, e la società in generale è quello di crescere le nuove generazioni. Un altro adagio ispiratore a questo proposito è di David Bohm, fisico e mente visionaria del secolo scorso. Bohm amava affermare che “la capacità di percepire o pensare in maniera differente è più importante della conoscenza acquisita”. Mi ha talmente colpito che, diversi anni fa, ho comperato una tabella con scritto: “Think out-of-the box”. L’ho sempre tenuta appesa nel mio studio, prima a Trieste e ora a Londra. Per ricordare ai miei studenti e collaboratori più giovani che l’innovazione nella scienza viene spesso dal pensiero laterale, non dall’interpretazione scontata.

Il tema dell’innovazione è molto importante in medicina, perché molte delle malattie importanti (Alzheimer, scompenso cardiaco, degenerazione della retina, tumori per citarne alcune) hanno bisogno di approcci del tutto innovativi per consentire lo sviluppo di nuove terapie che siano risolutive. Da dove deriverà questa innovazione così necessaria? Difficilmente dalle imprese farmaceutiche. Troppo ingessate nella loro struttura manageriale, troppo vincolate da logiche di profitto anche piccolo ma certo, e spesso con i propri settori di ricerca e sviluppo che fanno fatica a investire in approcci out-of-the-box e quindi molto a rischio.

L’innovazione non può altro che venire dalle università, dove la libertà di pensiero e di sperimentazione rimane il fulcro dell’attività accademica e di quella di insegnamento. Per di più, le università sono il luogo dove vengono le giovani menti brillanti per essere coltivate, ed è proprio dai giovani che l’innovazione è molto più probabile possa sgorgare. In medicina questo concetto è chiarissimo: una parte importante dell’innovazione degli ultimi 20 anni in ambito terapeutico (farmaci fatti con l’ingegneria genetica, anticorpi monoclonali per le malattie reumatiche e i tumori, editing genetico per le malattie ereditarie per limitarsi soltanto a tre applicazioni) provengono da scoperte accademiche.

Con un meccanismo di sviluppo molto codificato. Il ricercatore scopre o sviluppa qualcosa di innovativo. L’università di cui è dipendente brevetta la scoperta. Sempre l’università, poi, attraverso il suo ufficio di trasferimento tecnologico, inizia a sondare la disponibilità di investitori a rischio (venture capital) di finanziare una start up.

L’investitore sborsa il capitale per l’intera start up, mentre l’università ne acquisisce una quota (tipicamente, il 20-30%) in cambio della cessione della licenza esclusiva del brevetto. Il ricercatore che ha fatto la scoperta diventa il fondatore della start up, e l’università può cedergli una parte delle quote; questo fondatore può decidere o meno se lasciare in parte il lavoro universitario per prendere parte alle attività della start up, o se semplicemente rimanere un consulente esterno.

In ogni caso, la start up è guidata da professionisti con l’esperienza e la capacità di muoversi nel mondo del business – l’idea del ricercatore che diventa imprenditore è molto romantica ma poco realistica. La start up sviluppa la terapia e la sperimenta, provandone l’efficacia e la sicurezza in animali prima di piccola e poi di grande taglia. A quel punto la start up ha bisogno di un secondo round di finanziamento molto più robusto, e anche questo proveniente da capitali a rischio di investitori. Questo rifinanziamento consente alla start up di arrivare alla sperimentazione clinica sui pazienti.

Se questa funziona, ecco che la start up solo a questo punto diventa interessante per i grandi gruppi farmaceutici, che la acquisiscono completamente, pagando cifre spesso dell’ordine di molte centinaia di milioni di dollari o euro contro un capitale di finanziamento della start originale di 5-10 volte più basso, facendo quindi la gioia delle università, degli investitori e dei fondatori. E’ questo il modello di business che ha avuto più successo negli ultimi decenni per lo sviluppo dei nuovi farmaci, e continua a essere quello più seguito oggi.

E’ proprio a causa di questo schema che le università di Regno Unito e Stati Uniti oggi cercano quanto più possibile di creare un ecosistema tale da incentivare i propri ricercatori a innovare, dal momento che poi tutti ne ricavano un significativo ritorno economico. Dobbiamo imparare, in Italia, da questo modello: stimolare l’innovazione nelle università e nei centri di ricerca, fornire gli strumenti per agganciare gli investitori a livello internazionale, fornire le professionalità giuste per condurre la nuova company attraverso tutte le fasi dello sviluppo e della sperimentazione. La strada da compiere è ancora molto lunga, ma la via è segnata.