Olivier Norek, il maestro si racconta alla Guarneriana
È considerato il maestro del noir francese, è un autore bestseller da più di due milioni e mezzo di copie nel mondo.
Olivier Norek ha partecipato ai soccorsi umanitari durante la guerra nella ex Jugoslavia prima di entrare nella polizia giudiziaria, dove è rimasto per diciotto anni. Autore di quattro romanzi polizieschi con protagonista il commissario Coste, lo scrittore sarà domenica, con Elena Commessatti, alla Libreria Guarneriana di San Daniele per un evento di WÈ. Meister Libreria.
l suo ultimo romanzo pubblicato in Italia, Codice 93, è ambientato in una delle periferie più calde di Parigi, quella della Seine Saint Denis: perché ha scelto questa ambientazione?
«Scegliere un contesto che si conosce bene è un buon modo per orientarsi, nessuna storia infatti si racconta meglio di quella di cui si è stati attori o che si conosce in prima persona. Al contrario, scrivere di qualcosa che non si conosce affatto comporta il rischio di produrre un racconto approssimativo e io non volevo scrivere l’ennesimo giallo, volevo scrivere una storia che avvicinasse il più vicino possibile il lettore alla realtà e per questo ho scritto del dipartimento di Sein-Saint-Denis dove ho lavorato per 15 anni in commissariato, nel reparto investigativo, occupandomi soprattutto di sequestri con riscatti, furti aggravati e aggressioni sessuali».
Il protagonista del romanzo, Victor Coste, è un personaggio dai tratti caratteriali molto forti, che agisce in modo autonomo, anche al di fuori della legge. Regole e senso di giustizia a volte divergono?
«È una domanda interessante perché esiste in effetti una differenza tra quanto è giusto fare e quello che il codice penale ci dice di fare. Ed è una questione che coinvolge senz’altro chi lavora nella polizia. Ci sono casi in cui siamo portati a superare il confine tra ciò che è giusto e ciò che è lecito, ma questo avviene e deve avvenire solo a vantaggio delle vittime. La questione davanti alla quale ci troviamo, un mare in cui non è semplice navigare, è saper scegliere tra ciò che è giusto fare e ciò che è moralmente corretto».
Il personaggio di Victor Coste è un omaggio a qualcuno?
«Si, sicuramente è un omaggio al “vero poliziotto”, ne vuole essere un’anti-caricatura, perché nelle serie e nei film polizieschi vediamo sempre questi investigatori blasé che bevono whiskey al mattino presto, che si fanno strisce di coca nel pomeriggio e, per completare il quadro, hanno magari come amichetta un’ex prostituta. Questo è sicuramente il contrario di ciò che succede veramente. Il vero poliziotto ha la testa sulle spalle ed è il mondo attorno a lui che gira per il verso sbagliato. E quindi, con il personaggio del capitano Coste, ho voluto essere onesto nei confronti di questi poliziotti, smontarne il cliché».
Le sue storie nascono da un’esperienza nella polizia giudiziaria...
«Sono stato un poliziotto che ha operato sul campo e sono anche un autore che scrive sul campo, perché ho bisogno, per raccontare, di toccare, sentire, vivere e sperimentare. Quindi sì, la Trilogia delle banlieue con il capitano Coste è basata sulle indagini alle quali ho partecipato e i miei libri si differenziano dagli altri polizieschi perché il 95% di quello che c’è dentro corrisponde alla verità. Conosco molto bene tutti i crimini, le vittime, le procedure che racconto».
Lei in un precedente testo ha scritto: «Ci sono poliziotti che danno la caccia ai mostri. E ci sono poliziotti che proteggono le vittime. La differenza è sottile, eppure c’è un abisso». Qual è la differenza?
«L’obiettivo alla fine è lo stesso, neutralizzare una minaccia oppure arrestare un omicida, un aggressore, un assassino, ma è l’approccio a essere diverso. Ci sono poliziotti sovraeccitati che tirano fuori l’arma e vanno a 180km/h per le strade di Parigi ma ce ne sono degli altri che fanno il loro lavoro in maniera diversa, e io facevo parte di questi ultimi. Per me fare il poliziotto significava ristabilire la giustizia, riparare un’ingiustizia, poter riconoscere nello sguardo della vittima che si è sentita presa in carico, aiutata, perché lo sguardo degli altri pesa tantissimo su di noi, non a caso Sartre diceva che l’inferno sono gli altri, ed è il motivo per cui io ho fatto alcune scelte nella mia carriera nelle forze dell’ordine»
Il noir, in tutte le sue declinazioni, è un genere che appassiona molto i lettori. Come si spiega questo interesse per storie che hanno al centro il male, in tutte le sue forme?
«Non è piacevole parlare della morte, eppure ne parliamo tutti di continuo, abbiamo interesse e curiosità per questo appuntamento inevitabile. Pensare che noi tutti abbiamo una data di scadenza senza diventare pazzi è una prova insormontabile per l’essere umano perché sebbene tutti dobbiamo morire, ognuno di noi si sveglia la mattina con la voglia di continuare a costruire e inventare, come se fossimo eterni. Forse il cinema, la televisione, le serie televisive dove si gioca con la morte, servono in qualche modo a sdrammatizzarla, ci permettono di andare avanti, di continuare a fare quello che facciamo».
Cosa ne pensa dello stato della letteratura noir oggi? Crede che sia un genere sempre adatto a raccontare il mondo in cui viviamo?
«Un romanzo poliziesco è in qualche modo un libro di storia che deve ancora accadere perché racconta di fatti sociali, di fatti politici, racconta la nostra epoca, è una forma artistica piuttosto vicina alla vita di tutti i giorni da cui prendiamo ispirazione per non raccontare sempre la stessa storia.
Conosce il noir italiano?
«C’è un autore italiano che amo molto ed è Camilleri, il padre di Montalbano. Ha questo aspetto bonario che mi fa pensare all’ispettore Maigret di Simenon perché Montalbano si preoccupa di più di quel che c’è nel frigo che di dare la caccia al cattivo della situazione».