ru24.pro
World News in Italian
Март
2024

«Parlo all’orecchio per curare il cervello e prevenire demenza e depressione»

0

La chiamano “pandemia silenziosa”, perché quello delle malattie dell’orecchio con i conseguenti disturbi uditivi è un problema strisciante, che si nutre – con una certa bulimia – di silenzi e sottovalutazione, diffondendosi a grande velocità senza confini, proprio come una pandemia.

Da qui la necessità di parlarne, che ha portato all’istituzione di una giornata nazionale di sensibilizzazione, come ricorda il professor Cosimo de Filippis, direttore della Scuola di specializzazione in Audiologia e Foniatria dell’Università di Padova e dell’Uoc di Foniatria e Audiologia Clinicizzata dell’Università di Padova a Treviso.

Professore, come stanno le nostre orecchie?

«Per la maggior parte bene, tuttavia i problemi di sordità e le malattie che colpiscono l’udito sono particolarmente diffusi nonché in aumento per due motivi: come conseguenza della longevità, per cui l’udito nel tempo subisce un decadimento fisiologico e per problemi causati dalla società moderna, ovvero da lavori nell’industria, dalla frequentazione di discoteche e dall’uso costante e prolungato delle cuffie già nei giovanissimi».

Perché la perdita dell’udito, anche parziale, è grave?

«Negli anziani è particolarmente significativa poiché si ripercuote non solo nella sfera comunicativa, ma soprattutto in quella cognitiva. In Italia ci sono 7 milioni di persone che soffrono di ipoacusia, numero che nel giro di 30 anni è destinato a raddoppiare. Ed è un dato tanto più preoccupante se si considera che gli studi confermano che i problemi dell’udito non trattati sono associati a demenza, depressione e cadute, queste ultime legate all’apparato vestibolare. Considerando anche i problemi comunicativi, gli anziani finiscono per essere ulteriormente confinati in un limbo avulso dalla società. Del resto la menomazione dell’udito richiede una compensazione che affatica il cervello: cercando di sopperire al deficit questo finisce per essere meno efficiente fino a ridurre anche del 30% le altre abilità tra cui la memoria a breve termine. È un problema di cui si parla troppo poco».

Quindi oltre a un incremento dell’ipoacusia c’è anche un problema di stigma?

«Questo è ancora un problema molto pesante. Sia i medici che le aziende si adoperano per minimizzare l’impatto visivo degli ausili: vogliono rendere meno evidente la menomazione. Ma cercando di sminuirla, tuttavia, si finisce per non affrontare in modo efficace le condizioni di fragilità che questa determina. C’è una tendenza a ridurre le persone ad apparati, ma l’individuo è unico e i suoi bisogni sono correlati: ad esempio io curo l’ipoacusia per curare il cervello, potrei dire che parlo all’orecchio perché il cervello intenda. Tuttavia non c’è un sufficiente livello di consapevolezza, né degli effetti dei problemi dell’udito sul resto del corpo né dell’importanza di trattare la persona nella sua interezza: ma è solo così che si garantisce il corretto supporto alla fragilità. Dico sempre ai miei studenti: la vita nasce dall’amore e l’amore cura la vita».

Ritiene che serva una maggiore prevenzione o una più ampia sensibilizzazione?

«Entrambe. Purtroppo troppo spesso si ricorre alla divulgazione dei successi della medicina o della tecnologia ad essa correlata, ma questa non è sensibilizzazione, l’educazione sanitaria è altro. Il concetto di salute è molto vasto: nella Costituzione se ne parla come di un diritto, ma così si tende a escludere chi la salute per un motivo o per l’altro non ce l’ha. Il vero diritto, quindi, è la tutela della salute».

Si può dire che, grazie a impianti cocleari e dispositivi, la sordità sia stata sconfitta?

«Dal punto di vista interventistico possiamo dire di sì. Noi restituiamo l’udito ai sordi e sui bambini che nascono con un deficit, che un tempo li avrebbe condannati al sordomutismo e a una conseguente mancata maturazione cognitiva, siamo in grado di realizzare un impianto cocleare tra l’anno e i 18 mesi di vita, assicurando loro l’acquisizione del linguaggio in tempi normali e possibilità accademiche rapportabili a quelle degli altri bimbi. Inoltre in un adulto siamo intervenuti su un’ipoacusia bilaterale causata da meningite posizionando i due impianti quasi contestualmente, prima dell’ossificazone e il paziente è tornato a sentire quasi perfettamente».

Spesso la perdita di udito negli anziani viene vissuta come qualcosa di naturale e irreversibile. Hanno consapevolezza della possibilità di migliorare la loro condizione?

«No, gli anziani non hanno questa consapevolezza, anzi, cercano di nascondere questa difficoltà. Sta alla società far emergere e normalizzare il deficit in modo da poter curare il problema che, ripeto, non è il sintomo quanto l’involuzione della persona che senza stimolo uditivo ha un declino cerebrale».

Con gli impianti cocleari donate l’udito ai bimbi che non ce l’hanno. Qual è l’espressione di chi sente una voce per la prima volta?

«È lo sguardo di chi ha appena visto Babbo Natale in carne e ossa. È una sguardo che trasmette una sensazione di meraviglia, gioia, stupore e al tempo stesso paura per l’incontro con il suono, per qualcosa che non ha mai provato prima. I bimbi capiscono che grazie a questo impianto, che pure è visibile, sono in grado di sentire e non vogliono separarsene più, mentre adulti e anziani cercano di mimetizzarlo. La malattia non va affrontata con repulsione, serve accettazione. Chi lo fa ha più chance di avere una vita migliore».

Quindi quali sono le prossime sfide dal punto di vista scientifico?

«Aumentare al consapevolezza nelle persone. La comunità scientifica si sta sempre più orientando a identificare la disabilità uditiva come disabilità cognitiva. La prevenzione sta anche nell’individuare in una lieve sordità un campanello d’allarme mettendo in moto una serie di test diagnostici cognitivi per arrivare a un’analisi più profonda. Vogliamo arrivare a una comprensione del problema a trecentosessanta gradi, considerando la persona nella sua interezza. Ed è questo che deve fare un audiologo».

A proposito: qual è la situazione della specialità?

«Pessima, non ci sono giovani che scelgono questa specialità. In particolare, io considero audiologia e foniatria una sorta di superspecializzazioni dell’Otorinolaringoiatria che però difficilmente si occupa di questi problemi, poiché tende a concentrarsi di più sul profilo chirurgico e in particolare neoplastico. C’è veramente una grande carenza di specialisti in grado di inquadrare queste problematiche. In Italia ci sono anche pochissime strutture e l’unica Uoc di Audiologia e Foniatria a direzione universitaria è quella che dirigo io a Treviso. Per il futuro è necessario illuminare questo campo che si va desertificando. I giovani preferiscono i settori in cui si guadagna di più e subito. Non c’è un supporto adeguato per lavori necessari dal punto di vista sia sanitario che sociale. E quindi andiamo a prendere i medici in Africa o a Cuba.