Femminicidi, Giulia e tutte le altre: «La politica non ha rispettato gli impegni e le promesse»
«Bisogna prendere atto del fatto che Giulia non è stata l’ultima. E al di là dell’ondata di indignazione per la sua morte, la politica non ha rispettato le promesse di combattere radicalmente la cultura del patriarcato. Per questo l’8 marzo non potrà essere una festa, ma sarà una giornata di lotta».
È Alessia Conti, presidente del Consiglio nazionale degli studenti universitari, a farsi portavoce dell’ennesima giornata di dolore e di rabbia. Sara Buratin non sarà l’ultima, come non lo è stata Vanessa Ballan (uccisa a gennaio da uno stalker), né Giulia Cecchettin per cui tutta Italia ha fatto rumore. La piaga
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Conti, è possibile dire che la lezione di Giulia non è servita?
«Dobbiamo guardare in faccia la realtà e nonostante l’entità della mobilitazione che è nata dal femminicidio Cecchettin, le istituzioni non hanno ancora individuato una risposta concreta e politica che possa cambiare le cose. Un elemento su cui porre attenzione è il fatto che si sia guardato tanto al disagio di una generazione, ma i femminicidi successivi ci dimostrano che non è cosi. La realtà è che c’è un fenomeno strutturale della nostra società, vale a dire il patriarcato e la cultura del possesso».
Un fenomeno evidentemente trasversale.
«Riguarda i giovani come gli anziani, gli imprenditori come i dipendenti. Siamo davanti a un’impostazione culturale che vede la donna come un oggetto, una proprietà, con un ruolo sottomesso all’uomo. Finché non agiamo su queste leve continueranno a ripetersi episodi del genere. La tragedia di Bovolenta – se si confermano le prime ipotesi delle indagini che puntano all’ex compagno – lascia sgomenti, ma ci conferma che senza un cambiamento culturale non possiamo avere risultati diversi».
Che risposta è mancata da parte della politica o delle altre istituzioni?
«Il problema dei femminicidi e della cultura patriarcale è che risponde alla responsabilità di diverse istituzioni, che dovrebbero agire con una certa urgenza. Deve intervenire la politica, nella sua accezione più alta. Il governo in primis deve trovare degli strumenti per inserirsi nello sradicamento della cultura patriarcale».
In che modo?
«Ci sono degli spazi da cui iniziare. E sono le scuole, fin dai gradi primari. Bisogna introdurre percorsi trasversali e obbligatori di educazione all’affettività, al consenso, alle relazioni. Fin piccoli va insegnato come instaurare rapporti sani e come gestire un rifiuto».
E per quanto riguarda le università?
«Vanno creati degli spazi sicuri. Implementando gli strumenti che esistono già come la consigliera di fiducia, ma anche introducendo spazi di ascolto e sportelli anti-violenza. Ma questo può essere fatto solo se ci sono i fondi».
La mobilitazione per Giulia però ha creato una forte sensibilità nel Paese. Non basta?
«Subito dopo il femminicidio Cecchettin c’è stato un notevole aumento di denunce. Questo è positivo perché c’è una coscienza nuova, in particolare tra le donne. Ma è drammatico perché ci ha fatto scoprire quanto diffuso è il fenomeno».
E quindi?
«Quindi servono strutture capillari e radicate nei territori, come i centri anti-violenza».
Non crede ci vorranno decenni per almeno intaccare la cultura patriarcale?
«Se ci fosse la volontà politica si potrebbe far prima. E penso alla velocità con cui il governo ha creato reati contro chi protesta per l’ambiente o realizzato l’accordo con l’Albania sui migranti. È ovvio che una rivoluzione culturale ha bisogno di tempo, ma se mai si parte mai si arriva. E se non succederà nulla questo 8 marzo sarà un giorno di lotta per tutte».