Milano Fashion Week: quello che resta delle sfilate
Cala il sipario sulla Milano Fashion Week. Cinque giorni di sfilate e presentazioni dove alcuni dei più grandi nomi della moda internazionale hanno presentato le loro collezioni per il prossimo autunno.
Come già paventato durante Milano Moda Uomo, nella corsa tra una sfilata e l’altra - dovendo fare i conti con il caotico traffico cittadino e la pioggia battente - una parola sembra riecheggiare sulle passerelle: archivi. Recuperati, rieditati e stravolti, ma pur sempre punto di riferimento per la creazione di collezioni che si prestano a essere commercializzate con successo, in un’economia sempre più incerta. Nonostante le identità e gli approcci creativi unici dei brand c'è stato un notevole allineamento nella loro interpretazione delle principali tendenze che hanno dominato le collezioni. Tanti i cappotti, così come le trasparenze ispirate alla lingerie e una particolare propensione per il verde oliva che, nella sfilata di Gucci, ha affiancato il tanto chiacchierato «Rosso ancora», lanciato da Sabato de Sarno nella sua prima collezione per la maison fiorentina. Senza pretesti narrativi o scenografie cinematografiche, il creativo alla guida di Gucci, prosegue nella convinzione che debbano essere i vestiti a parlare.
Una visione che sembra condividere con Adrian Appiolaza che nel suo debutto per Moschino ha presentato una collezione decisamente più sobria e indossabile rispetto al suo predecessore, basata - sorpresa - sull’archivio di Franco Moschino, tra stampe “smile”, punti interrogativi e borse dalle forme originali, ma non macchiettiste. Ha invece deluso - seppur solo creativamente, ed è il pubblico ad avere sempre l’ultima parola - le aspettative Walter Chiapponi, al suo debutto per Blumarine. Anche lui ha parlato di una riscoperta dell’archivio, riadattato per rappresentare la donna e l’uomo contemporaneo, ma privo di quel divertissement che da sempre caratterizza il brand. Toccante, il tributo di Chiapponi, al termine della sfilata, a Davide Renne, lo stilista che avrebbe dovuto debuttare alla direzione creativa di Moschino questo febbraio, scomparso prematuramente qualche mese fa.
Ottimi i ritorni in passerella di Peter Hawkings per Tom Ford e Simone Bellotti per Bally, decisamente più consapevoli della propria direzione creativa, sebbene al primo si debba ancora riconoscere una tendenza di emulazione verso ciò che Tom Ford è stato e continua a essere: rappresentazione di glamour nella sua essenza.
Trionfa poi il lusso, quello che appare inaccessibile nella sua opulenza, figlio della tendenza “quiet luxury” che sembra aver preso il sopravvento. Questo, nonostante la dichiarazione di Miuccia Prada che avrebbe definito la parola lusso come «volgare», pur appartenendo pienamente alla categoria. Insieme a nomi come Dolce&Gabbana, re del total black e delle trasparenze; Versace, nella sua era punk sì, ma in tailleur; e Bottega Veneta. Affascinante il gioco di contrasti della calzature, tra platform vertiginose o ballerine, con qualche tocco eclettico come le décolleté di piume firmate Ferragamo.
Non si può certo fare un resoconto della Milano Fashion Week senza nominare i suoi ospiti illustri. L’assenza di una celebre influencer in crisi non ha infatti rallentato il flusso di prezzemolini del web in front row, nonostante le recriminazioni di molti brand sul tema. È altrettanto vero che gli influencer non dimostrino più la stessa attrattiva di dieci anni fa, soppiantati - ancora una volta - da celebrities in arrivo da Hollywood come Anne Hathaway ma anche il criticatissimo Kanye West, e dalle nuove star provenienti da Corea del Sud, Cina e Thailandia, ormai titolati “ambassador globali” e presenti a ogni sfilata, insieme a centinaia di fan in attesa di scambiare anche solo uno sguardo con il proprio idolo. Dopotutto se la moda è ciclica, così sono le front row.