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Февраль
2024

“I Promessi Sposi” in scena a Monfalcone con Finazzer Flory

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“I Promessi Sposi” in scena a Monfalcone con Finazzer Flory

foto da Quotidiani locali

MONFALCONE «Occorre ricordare da quale lingua veniamo. Siamo figli di quella lingua. Non possiamo ignorarla né impoverirla. E chi usa 20 o 200 parole è più povero di chi ne ha 2000. L’impoverimento lessicale causato dai social network è una patologia di cui pagheremo le conseguenze. Sì, l’impoverimento lessicale è mentale, relazionale, emozionale. E come Manzoni usa la punteggiatura, gli aggettivi è spettacolare, da premio Oscar».

A sentirne il protagonista, Massimiliano Finazzer Flory, è questo uno degli obiettivi che si propone “I Promessi Sposi”, spettacolo che si potrà applaudire domenica 25 febbraio, alle 16, al teatro Comunale Marlena Bonezzi di Monfalcone.

Con lui ci sarà il violinista Matteo Fedeli. Stasera vanno in scena le letture teatrali dei più significativi capitoli I, VI, VIII, XII, XXI, XXXIV e XXXVIII del romanzo, nel segno delle celebrazioni Manzoniane per i 150 anni dalla scomparsa di Alessandro Manzoni e del successo del tour che ha toccato, il Duomo di Milano, il Principato di Monaco, Berlino, Monaco di Baviera, Amburgo e Londra. L’appuntamento è a ingresso gratuito. Per prenotazioni è possibile rivolgersi al 328.4350225.

Tra l’altro, Finazzer Flory ha interpretato alcuni capitoli del capolavoro lo scorso 22 maggio in occasione dei 150.anni della morte di Alessandro Manzoni. All’evento ha anche preso parte il Capo dello Stato Sergio Mattarella.

Quando nasce il rapporto teatrale con I Promessi Sposi?

«Nel 2011, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. È allora che, cominciando a lavorare con la Farnesina, li ho portati come spettacolo d’interesse nazionale all’estero. Sono partito con una tournée in dieci Stati degli Usa, facendo conoscere il romanzo quale bandiera dell’Italia, convinto, come mi ha insegnato Luca Ronconi, che qualsiasi attore si deve confrontare con la propria lingua. Poi, con questo lavoro, oltre che negli Stati Uniti sono andato in Giappone, in Corea, in Cina».

Come si è modificato lo spettacolo?

«Sono cambiato io. Più si recita Manzoni più si capisce “il sugo di tutta la storia”. E il sugo di tutta la storia è comprendere davvero l’ingiustizia, gli umili, e, per quanto mi riguarda, la conversione e la Provvidenza. A cominciare da un’affermazione novecentesca: “Non possiamo non dirci cristiani”. Quindi, il mio rapporto con lo spettacolo è cambiato attraverso la fede. All’inizio, la sua era solo una versione laica: un attore che recitava un grande classico».

Cosa vede lo spettatore?

«Ci sono le luci che rappresentano i sentimenti dei personaggi. Sulla destra c’è una sedia vuota e, sotto di essa, una pila di libri. Dall’altra parte, c’è un punto luce con un musicista che interagisce con me, quando passiamo da un capitolo all’altro. La messinscena è essenziale, riprendendo quindi Peter Brook: lo spazio è pressoché vuoto, con l’attore che cammina recitando e un musicista che lo guarda. Gli spettatori diventano parte di questo spazio. Come quinta di scena, ci sono stampe ottocentesche proiettate: rappresentano il libro attraverso illustrazioni d’epoca. Tramite questo spettacolo, desidero dire ai giovani di non dimenticare la carta, che custodisce la tradizione».

Può raccontare brevemente il suo rapporto con Monfalcone, dov’è nato?

«A Monfalcone vivono ancora mia madre e mia sorella. Quindi, è una città che conserva parte della mia famiglia d’origine. Come direbbe Rilke, che ha firmato le Elegie duinesi a pochi passi da lì, approdando in un’altra patria, in un altro luogo, si rinasce una seconda volta. Ma Monfalcone rimane una delle mie patrie. Per il resto, quello verso la città è uno sguardo nostalgico, in bianco e nero: ricordo gli operai in bicicletta, gli scioperi. Gli anni Settanta erano quelli delle manifestazioni in piazza, dei leader politici che venivano da noi, di Berlinguer e dei democristiani. Appartengo a una generazione che ha visto la Monfalcone che c’era e che oggi non c’è più, che si domandava cosa significasse avere una propria identità. E, nel complesso, quel bianco e nero d’allora era più affascinante del colore di oggi».