Esuberi e delocalizzazioni: le trattative parallele per lasciare l’Italia di Uber Eats, che cerca la sponda di Ugl Rider
Ora che è messa alle strette dal Tribunale di Milano, Uber Eats sta cercando la sponda dell’unico sindacato allineato: l’Ugl Rider. La piattaforma delle consegne di cibo a domicilio, infatti, ha bisogno di un accordo sindacale per lasciare l’Italia, e spera di firmarlo con una sigla che, quantomeno sui fattorini, ha assunto da tempo posizioni congruenti a quelle delle aziende, tanto che a settembre 2020 è stata l’unica a voler firmare il contratto collettivo dei rider; contratto poi dichiarato illegittimo da diverse pronunce giudiziarie.
A giugno 2023, Uber Eats ha annunciato di voler chiudere le attività nel nostro Paese, interrompendo le collaborazioni con circa 4mila rider; a settembre, però, i giudici hanno bloccato tutto, dichiarando “antisindacale” il comportamento dell’azienda. Il Tribunale ha quindi imposto, prima di smobilitare, di raggiungere un accordo con i sindacati. In pratica, secondo i magistrati va applicata la legge contro le delocalizzazioni approvata nel 2021. Quindi, ora che è obbligata a firmare un’intesa, la multinazionale spera di sottoscriverla con l’Ugl, alla quale ha scritto in questi giorni una lettera.
La modalità è alquanto singolare. Uber Eats, infatti, ha scritto due lettere identiche: una destinata alle diverse categorie di Cgil, Cisl e Uil; un’altra mandata alla sola Ugl. Il Fatto Quotidiano ha potuto visionarle entrambe e, a quanto risulta, i sindacati confederali non sanno nulla della missiva “gemella” arrivata sul tavolo dell’Ugl Rider. L’impressione, quindi, è che Uber punti a due trattative parallele. Uno scenario che ricorda molto proprio quanto successo nel 2020. In quell’anno, infatti, le società di consegne a domicilio riunite nell’Assodelivery – tra cui Uber Eats – si resero protagoniste di un bluff. Partecipavano ai tavoli ministeriali con Cgil, Cisl e Uil, oltre che con le sigle autonome, ma di nascosto portavano avanti la trattativa con la sola Ugl. E, infatti, a settembre 2020 spuntò dal nulla il contratto collettivo Assodelivery-Ugl; accordo che accettava le condizioni imposte dalle piattaforme: niente assunzioni, collaborazioni autonome, niente salari orari, pagamenti in base al numero di consegne. Un sistema fortemente contestato negli scorsi anni che veniva scolpito in un contratto collettivo con un sindacato accondiscendente.
Tre federazioni della Cgil – Filcams, Filt e Nidil – iniziarono subito una battaglia giudiziaria. Diverse pronunce hanno definito illegittimo il contratto Assodelivery-Ugl poiché il sindacato firmatario non è rappresentativo. Secondo il Tribunale di Firenze, si tratta addirittura di una sigla “di comodo”, poiché non conflittuale. Tornando alla stretta attualità, ora il problema è un altro. Uber Eats non ha bisogno di un sindacato che firmi un contratto collettivo. Ha bisogno di stringere un accordo per cessare le attività in Italia. Come detto, infatti, il Tribunale di Milano ha accolto il ricorso delle tre sigle Cgil stabilendo che – sebbene i rider siano inquadrati appunto come collaboratori autonomi – questi sono di fatto dipendenti, quindi rientrano nella procedura del licenziamento collettivo, oltre che negli obblighi previsti in caso di delocalizzazione. In buona sostanza, la società deve approvare un piano di sostegno ai lavoratori mandati a casa, per esempio favorendo progetti di auto-impiego e altre iniziative previste dalla legge del 2021. In caso di mancata presentazione, si rischiano sanzioni.
Uber Eats ha spiegato di avere comunque impugnato la decisione del Tribunale di Milano, quindi spera in un annullamento. L’azienda, inoltre, sostiene che la decisione di chiudere impatta su 2.144 rider, cioè quelli con almeno 200 consegne effettuate nell’ultimo semestre di attività (in pratica, i primi sei mesi del 2023). Non ha però ancora chiarito il motivo per cui ha scelto di coinvolgere l’Ugl e soprattutto perché lo ha fatto con una comunicazione separata rispetto alle altre sigle.
Nel frattempo, sempre oggi Filcams, Filt e Nidil Cgil hanno promosso una class action proprio per spingere Uber Eats ad avviare il piano di sostegno ai rider licenziati. “Sono – mesi si legge nella nota delle tre organizzazioni –, che Uber Eats, nonostante la condanna di antisindacalità, che ha imposto di revocare i licenziamenti, si sottrae agli obblighi imposti dal giudice non rispristinando la possibilità per i rider di lavorare. Dopo otto mesi di inspiegabile ritardo, le organizzazioni sindacali hanno ricevuto solo una breve comunicazione con la quale Uber Eats sostiene paradossalmente la legittimità del suo operato e indica un numero di rider che hanno subito la disconnessione di gran lunga inferiore a quello dei fattorini con account attivo”.
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