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Январь
2024

Con Pordenonelegge a scuola di scrittura

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PORDENONE. Paolo Di Paolo, uno degli autori più apprezzati e amati della scena letteraria italiana, giornalista, saggista, critico letterario, conduttore del noto programma “La lingua batte”, su Rai Radio Tre, è uno dei cinque scrittori – insieme ad Alberto Garlini, Gian Mario Villalta, Michela Marzano, Alessandra Sarchi – che avranno il ruolo di docenti alla 15esima edizione di Pordenonescrive, la scuola di scrittura della Fondazione Pordenonelegge, che tornerà dal 13 febbraio al 12 marzo, su piattaforma digitale, seguendo il filo rosso “Come un romanzo”(iscrizioni entro il 30 gennaio, dettagli allo 04341573100).

Paolo Di Paolo, “metà degli italiani scrive l’altra metà non legge”, disse Hemingway. Perché scriviamo così tanto e leggiamo così poco? Forse più che scuole di scrittura sarebbero necessarie scuole di lettura?

«Si, è incredibile la sproporzione fra l’offerta di scrittura e la poca abitudine alla lettura, come se si fossero scollate due attività che per millenni sono state strettamente annodate.

Da un lato si potrebbe affermare, con snobismo, che chi non legge non dovrebbe scrivere, ma invece questo desiderio, questa urgenza di scrivere che attraversa diversi strati della società, indica un bisogno che solo 20 anni fa non era pensabile in questi termini.

Non c’è mai stata una porzione di umanità, sul pianeta, che scrive così tanto e che accede facilmente alla scrittura, grazie alla tastiera. È difficile capire perché prevalga il desiderio di espressione, c’è qualcosa di istintivo che domina. Baricco ha recentemente parlato di “cerimonia del tè di massa”, un rito al quale fino a qualche tempo fa si era ammessi, e non facilmente, soltanto conoscendo la liturgia.

Rotto il confine, la scrittura è diventata una cerimonia di massa. Ad ogni modo credo che le scuole di scrittura possano aiutare a capire che per scrivere è necessario diventare più acuti e consapevoli, anche di se stessi, e ciò implica diventare un buon lettore di testi altrui».

Come ci si accorge se ciò che scriviamo ha la possibilità di uscire dal “cassetto” e diventare d’interesse per gli altri?

«I docenti di una scuola di scrittura possono aiutarci a compiere un’operazione di distanziamento da ciò che scriviamo e ci sembra tutto urgentissimo, interessantissimo, originalissimo. Se ci facciamo guidare e proiettiamo ciò che scriviamo in un orizzonte di coscienza della scrittura in senso storico, saremo più autocritici ed è già un ottimo presupposto per ripensare, riscrivere, buttare via, ridefinire ciò che abbiamo da dire».

E se la scuola di scrittura ci aiutasse a capire che non diventeremo mai scrittori?

«La si può frequentare anche per se stessi, per migliorare. Invece di guardare a questa pletora di aspiranti scrittori alzando le spalle, pensiamo al fatto che potrebbero diventare persone e cittadini più consapevoli e responsabili, capaci di usare meglio le parole: una sorta di “ecologia linguistica” in contrasto al modo rozzo e aggressivo con cui oggi vengono utilizzate».

Parliamo del suo rapporto con la scrittura, lei ha capito molto giovane che era la sua strada, visto che a 20 anni esordì con un’antologia di racconti poi finalista al Premio Calvino.

«Ho iniziato prestissimo, e come accade per la musica o per lo sport riconoscere il proprio talento per tempo dà un vantaggio. Ero uscito da poco dalla scuola superiore e arrivare in finale al Calvino mi ha portato, in tempi relativamente brevi, a verificare se la scrittura poteva diventare il mio lavoro, se quel talento poteva resistere alle difficoltà oggettive del mestiere e consentirmi di diventare abbastanza riconoscibile».

Poi come ha fatto a trovare la sua “voce” nella scrittura?

«Grazie alla consapevolezza di cui parlavo: se non ce l’hai, e hai magari piazzato la tua opera prima o vinto un talent, e pensi che sia sufficiente quella casualità, ti perdi. E invece devi capire se puoi scommettere su un tempo più lungo, avere un progetto. Poi l’ostinazione.

Roth diceva “L’ostinazione, non il talento, ha salvato la mia vita”. Quindi l’allenamento, l’autodisciplina. Non può essere soltanto un piacere scrivere, pensiamo alla revisione o alla correzione di un libro. Non credo a chi esibisce divertimento, casualità, incidentalità, fare lo scrittore è un lavoro, seppure privilegiato».